NOTA DELL’AUTORE

 

 

PRIMA d’iniziare questo lungo e tortuoso viaggio vorrei parlarvi di una strada. Mi sembra doveroso farlo giacché l’inizio della storia che vi apprestate a leggere avviene su questa strada, o meglio, in un locale la cui entrata si affaccia su di essa. Ma basta con i preamboli. La sopraccitata strada altro non è che la statale del Sempione!
    Molti lo ignorano ma la sua storia ha radici antiche. Si ha il sospetto che il Sempione esista dal 200 d.C. circa. Il primo a tracciare un itinerario lungo questa direttrice fu Settimo Severo.
    Tuttavia il primo passaggio documentato risale al 1254 quando vi transitò l’arcivescovo Odo di Rouen in viaggio per Roma. La strada del Sempione parte da Milano e arriva fino a Parigi.
    Non starò a dilungarmi sulla sua storia, sebbene essa sia ricca di nomi illustri, le cui messe in opera hanno migliorato di molto le caratteristiche del Sempione. Persino Napoleone vi faceva transitare le sue truppe.
    Il tratto che interessa la nostra storia è quello che attraversa il paese di Sormate, piccolo centro abitato tra Gallarate e Somma Lombardo.
    Dunque cari Lettori lasciate che vi afferri per mano (sarebbe più appropriato dire che vi afferrerò letteralmente per un braccio trascinandovi dentro questa storia, ma con questa premessa chi mi seguirebbe mai?) e vi accompagni lungo questa strada a conoscere delle persone che forse non dimenticherete mai.

 

 

PROLOGO

 

 

INCASTONATA sulla facciata in cemento di un edificio che dà sul Sempione vi è la porta un po’ anonima fatta con vecchio legno di noce del bar La Vecchia Gerla.
    È in un tardo pomeriggio di una grigia giornata invernale, a pochi giorni dal Natale, che tutto ebbe inizio, con l’ignara, e soprattutto involontaria, partecipazione delle tre persone presenti in quel momento dentro il locale. Tre più l’uomo che fu etichettato come “lo Straniero”.
    Il bancone di legno ricoperto di solchi profondi, le vetrate dietro esso, sporche e ricolme di ripiani occupati da bottiglie di alcolici e i tavolini quadrati attorniati da quattro sedie ciascuno, conferivano alla Vecchia Gerla un aspetto a metà tra un bar e un pub (ma tende più verso il pub poiché il legno è di quello scuro e pesante e vecchio). Il bar è lungo e stretto con i tavolini su una parete e il bancone sull’altra. In fondo poi il locale si allarga a formare una stanza dove si trovano due tavoli da biliardo al centro e le macchinette dei videogiochi e del videopoker attaccate ai muri come carta da parati.
    Maddalena Benedetti è la proprietaria de La Vecchia Gerla e da che il bar ha aperto è sempre e solo stata lei a comandare lì dentro.
    Vai così vecchia strega stendili tutti!
    Una volta suo marito Alfredo, detto il Gerlo, ci aveva provato a metter becco, ora si vocifera che passi tutto il giorno chiuso nella cucina a far da mangiare. Perché La Vecchia Gerla è anche trattoria, signori e signore! Sì può tranquillamente sostenere che il locale di Maddalena è un po’ tutto lì a Sormate.
    Maddalena è una donnona dal corpo ingombrante, la pelle cascante sulle braccia, flaccida come stracci bagnati (fortunatamente d’inverno è nascosta sotto pensati maglioni) che se ne sta tutto il santo giorno con indosso un grembiule sempre macchiato da qualcosa (per la maggior parte delle volte le macchie sono di colore rosso sugo, ma non manca anche del marrone, alcuni giorni un po’ di giallo e perché no, anche il verde!) e si muove con fatica dietro il bancone del bar. Ha i capelli biondo grigi sempre raccolti a coda di cavallo e un po’ unticci, le guance sono cadenti e la pelle è lucida di grasso. Ha un caratteraccio scontroso, ma sotto sotto, molto sotto sotto, qualche volta, per fugaci istanti, riesce anche a provare un po’ di quella cosa che la gente comune chiama gentilezza.
    Quel pomeriggio uggioso, in cui la vita di molte persone era prossima a un drastico cambiamento, Maddalena stava riempiendo due boccali di birra per i due clienti abituali che sedevano davanti a lei su alti sgabelli di legno, senza mancare di gettare di tanto in tanto furtive occhiate all’uomo, lo Straniero, seduto nella penombra di un tavolo lontano. Il sottofondo nel locale era gentilmente offerto dalla pubblicità che usciva dal televisore posto in angolo sopra al banco. Una donna rassicurava i telespettatori sull’efficacia di quel detersivo per lavatrici. I due clienti habitué erano muratori che si ritrovavano ogni giorno alla Gerla per l’aperitivo, più che sostanzioso se vogliamo.
    «Io dico che quest’anno vinciamo lo scudetto» dichiarò d’un tratto Aldo Devito fissando un punto non meglio precisato sul ripiano del banco, rompendo un silenzio riflessivo dovuto più ai tre bianchini che si erano sgolati a testa più che al loro acume. Era vestito da lavoro, come sempre, con pesanti abiti imbottiti, sporchi di calce sui gomiti, sulle ginocchia e proprio all’altezza dello stomaco dove Aldo aveva l’abitudine di strofinare la mano. Il cappello blu, anch’esso impolverato, era buttato sul bancone come una reliquia. Aveva la testa pelata e pochi capelli bianchi sopra le orecchie, gli occhi azzurri erano ancora vispi e attenti.
    Rodolfo Luce non mancò di sbattere in faccia all’amico collega il solito sorriso di scherno: «Ah! Lo dici ogni anno e come va sempre a finire?» la discussione non decollò e i due amici brindarono a qualcosa di insensato. L’abbigliamento di Rodolfo non era lontano da quello dell’amico, un po’ di calce secca su jeans e scarpe e polvere sul giubbotto, ma lui, a differenza di Aldo i capelli li aveva tutti, di un orgoglioso bianco ma c’erano tutti. I due uomini erano illuminati dai faretti posti sopra il bancone del bar. Maddy (così solevano chiamarla i suoi amici) ci teneva a risparmiare la corrente, così se la clientela scarseggiava spegneva le luci superflue. Altre due lampadine erano accese sopra il tavolo in fondo al locale dove sedeva lo Straniero, assorto in quel momento allo studio del fondo della tazzina di caffè che stringeva tra le mani. Aldo osservò Maddalena che lisciava la spuma della birra con un coltello poi si voltò verso il suo amico, in quel mentre gli cadde lo sguardo oltre la spalla di Rodolfo, sullo Straniero e si bloccò a fissarlo con curioso interesse.
    Aveva l’aria di essere una persona anonima, che passa inosservata, di quelle che ti sfiorano per strada e non sai neppure di che colore aveva i calzoni. Eppure, senza alcun motivo apparente, Aldo Devito ebbe un fremito alla spina dorsale. Doveva essere sulla trentina ebbe modo di calcolare approssimativamente Aldo tra i fumi dell’alcol. Di bell’aspetto, capelli corti nella norma, ma con qualcosa che gli faceva pensare a Jack lo squartatore. Quell’associazione gli fece provare un brivido. Aldo Devito era un uomo di sessant’anni, di sani principi se così vogliamo affermare, con moglie e tre figli e proprio non riusciva a capire come aveva potuto, in quel contesto, alla Gerla, giungergli alla mente, tra l’altro persa in un mare di vino, il pensiero macabro di quell’assassino di prostitute. Forse perché la settimana prima quella vipera di sua moglie lo aveva costretto a vedere un film proprio sullo squartatore facendogli perdere una partita di calcio che davano alla tv?
    Poteva anche essere!
    Tuttavia non riusciva a capire il motivo che lo aveva spinto ad associare Jack lo squartatore allo Straniero che sedeva in disparte (e in silenzio da quando lui aveva messo piede alla Gerla mezz’ora prima).
    Era già qui quando siamo arrivati e da allora non ha spiccicato parola se non per ordinare il caffè che ha terminato da tempo pensò Aldo allungando un braccio sulla spalla dell’amico. Si costrinse a distogliere l’attenzione dallo Straniero e fissò le iridi iniettate di sangue di Rodolfo: «Senti juventino del cazzo ti dico che l’Inter quest’anno farà qualcosa, chiaro?»
    Maddy si premurò di levare loro davanti i bicchieri vuoti di vino e sostituirli prontamente con due boccali di birra. Rodolfo da buon juventino quale era si strinse nelle spalle lasciando Aldo alla sua pia illusione e sollevò il boccale brindando con l’amico.
    Sormate è un piccolo paese di duemila anime ed è a egual distanza, solo un chilometro, tra Gallarate e Somma Lombardo. Si può tranquillamente affermare che Sormate è costruito attorno al Sempione. Nel senso che il paese ha una sola via principale (se non avete capito quale, potete tranquillamente smettere di fare quello che state facendo, posare il libro sul comodino e dedicarvi ad altro) ai lati della quale si allunga il paese nella maggioranza delle sue case e negozi. Vi sono certamente vie laterali, traverse e via dicendo, ma il fulcro di Sormate è tutto lì, sul Sempione.
    La Vecchia Gerla è l’unico bar. La mattina le persone entrano a fare colazione, chiacchierano del più e del meno prima di recarsi ai rispettivi luoghi di lavoro. A metà mattinata le donne del paese vi sostano tra una commissione e l’altra a spettegolare di questo o quello. A mezzodì i camionisti si fermano per il pranzo: la cucina di Maddalena è rinomata da quelle parti. Il pomeriggio i giovani del paese si ritrovano per giocare alle macchinette o a biliardo e poi c’è l’ora dell’aperitivo. Mentre la sera uomini e ragazzi condividono il bar per partite a carte e altro… e poi il giorno ricomincia da capo con la colazione i pettegolezzi e via dicendo. Non succede mai niente di nuovo da quelle parti e la vita scorre sui monotoni binari di una tratta circolare. Cambiano le generazioni, crescono i ragazzi ma la Gerla è sempre la Gerla e Maddy sta sempre dietro il bancone, forse ci resterà in eterno a ringhiar dietro al culo di tutti.
    «Ehi Maddy» Aldo si era sporto in avanti sul bancone parlando a voce bassa «ma quel tizio là…» indicò con un cenno quasi impercettibile lo Straniero, «da quanto tempo è qui?»
    «Se non ricordo male è qui da un’ora e mezza circa.»
    Rodolfo parve cadere dalle nuvole: «Ma di chi state parlando?» domandò voltandosi lentamente a guardare nella direzione in cui era caduto lo sguardo a Maddy. Si accorse solo allora che c’era qualcun altro nel locale. Grazie al vino ne vedeva i contorni annebbiati, ma si trattava chiaramente di una persona, ne era quasi sicuro e se ci vedeva ancora abbastanza bene quell’uomo lo stava fissando. 
    Erano occhi rossi quelli che trafiggevano l’oscurità e puntavano direttamente su di lui? Occhi di fuoco? Rodolfo sbatté le palpebre confuso e gli occhi rosso fuoco svanirono all’istante. Confuso da tutto ciò Rodolfo sollevò istintivamente un braccio in segno di saluto e abbozzò un sorriso, poi si voltò verso Aldo e biascicò un poco comprensibile: «E quello chi diavolo è?»
    «Non ci pensare» lo dissuase Aldo ben sapendo che il giorno dopo Rodolfo non avrebbe rammentato nulla di quella conversazione, orami se l’erano giocati, era bello che andato. Aldo invece aveva ancora posto per molto altro alcol, forse ne subiva già gli effetti, ma diavolo! era ancora più che lucido! avrebbe potuto centrare la tazza del cesso da due metri di distanza se voleva.
    Come ogni giorno a quell’ora Maddy sollevò il telecomando e alzò il volume del televisore sintonizzato sul canale del telegiornale. I fatti di cronaca sarebbero stati il motivo delle prossime discussione per il resto della serata.
    Personaggi noti della politica avrebbero ricevuto le gratuite imprecazioni di Aldo e Rodolfo, sempre uniti contro tutto e tutti. Mentre attrici famose avrebbero ricevuto le loro lusinghe e le sincere promesse di appaganti notte di sesso in loro compagnia, nient’altro che innocui commenti da perdenti…
    «Ehi la ciotola qui piange!» Aldo spinse una piccola ciotola di vetro sul bancone. Maddalena l’afferrò guardandolo severa: «Forse è il caso che inizi a farvi pagare le patatine, già già, farei su’ un sacco di soldi!»
    «Sì, come no! Riempi ‘sta ciotola donna!» ribatté per nulla intimorito Aldo. Parlare a quel modo a Maddalena Benedetti, per chiunque altro sarebbe stato la rovina. Qualunque persona sarebbe stata bandita dal locale a vita. Ma Aldo Devito era un’altra storia, un tempo lontanissimo ormai, quando Maddy pesava diversi chili in meno (e quando ancora i peli sotto il suo naso non si vedevano) c’era stata una storia tra di loro. Roba passata oramai, però era rimasta quella confidenza intima che li univa. Ciononostante Maddy gli lanciò uno sguardo gelido, segno che aveva sfiorato il limite. Aldo si portò il boccale alla bocca e la osservò da dietro il bicchiere.
    Poi iniziarono i titoli del telegiornale e la loro attenzione fu catturata dallo schermo. La prima notizia che diede inizio a una discussione fu un fatto di cronaca straniera, avvenuto la sera prima in Inghilterra e vedeva coinvolta una ricca famiglia Londinese.
    «Poverini» fu il commento addolorato di Maddalena Benedetti che inconsciamente si era portata una mano al cuore e il viso aveva assunto un’espressione di sincero dispiacere, nel suo più raro atteggiamento da essere umano sensibile. E conservate questo ricordo perché non vi capiterà più di vederla così.
    Un po’ per colpa dell’alcol, un po’ perché era Aldo, fatto sta che la risposta gli uscì dalla bocca con un’ottava di troppo e riecheggiò per tutto il locale: «I soldi! È tutta colpa dei soldi! Alle persone povere questo non succede mai e sai perché?»
    Maddy lo guardò perplessa, (Rodolfo fungeva ormai solo da presenza, perso com’era nell’alcol) sorpresa dal tono alterato di Aldo più che da quello che aveva da dire, ma anche lei nutriva gli stessi sospetti: era tutta colpa dei soldi.
    Aldo ripeté il discorso dall’inizio, non ricordandosi di aver già pronunciato la domanda: «Alle persone povere questo non succede mai e sai perché?» non attese risposta, «perché non hanno i soldi! Che si fottano i soldi! Quindi miei cari…» sollevò il boccale per brindare. Rodolfo si riebbe al notar di quel gesto e lo seguì alzando il proprio boccale con un sorriso sornione e un pericoloso ondeggiare del braccio. «Brindiamo ai non soldi che abbiamo e che si fottano i ricchi!» concluse Aldo senza sapere esattamente il perché desiderasse che il suo grido giungesse fino allo Straniero.
    Ma sì che lo sapeva, voleva darsi delle arie. Fare capire a quello lì che a Sormate lui era qualcuno. Quella sera sarebbe andato a letto soddisfatto da tutto ciò. Eppure provò ancora quel senso di disagio mentre gettava una furtiva occhiata in fondo al locale. Lo Straniero non dava segni di averlo udito o di approvare il suo brindisi.
    Maddalena non ebbe a che ribattere, era vero, alla gente comune certe cose non succedevano, loro potevano stare tranquilli.
    Poco dopo giunse inaspettato il graffiante rumore delle gambe di una sedia che raspava il pavimento. I tre si voltarono di scatto verso lo Straniero, lontano dalle loro menti in quel momento e lo videro in piedi. Lo osservarono gettare dei soldi sul tavolo e incamminarsi nella loro direzione. Avanzava lento, con passo sicuro però.
    Quando lo Straniero giunse da loro, Rodolfo aveva da capire se il puntino nero che galleggiava sulla schiuma della sua birra era un insetto oppure no e non si accorse praticamente di nulla. Aldo si era voltato su un fianco per osservare l’arrivo dello Straniero e Maddy aveva puntellato le braccia sul bancone (sia ringraziato il Signore per il freddo che obbliga la gente a vestirsi pensate) e si era fatta seria.
    Diamine se era alto, notarono quando giunse da loro, doveva sfiorare il metro e novanta. Era vestito con pantaloni neri e maglione dello stesso colore, sopra indossava un cappotto nero (doveva essere il suo colore preferito, pensarono all’unisono Maddy e Aldo, ma non lo seppero mai).
    Quando il viso dello Straniero uscì dall’ombra e fu sotto la luce, Aldo cambiò il giudizio dato in precedenza aumentando l’età dello Straniero di dieci anni almeno. È sì amico, tu sfiori i quaranta! Non mutò invece l’associazione d’immagine e per un fulmineo momento se lo immaginò con mantello nero e cappello a cilindro a scendere da una carrozza in una piovosa notte Londinese, avvolto nella nebbia. Con sorpresa sua e di Maddalena lo Straniero si parò davanti ad Aldo. Aldo trattenne il fiato, ora mi ammazza rifletté in un estasi di terrore che lo aveva paralizzato. Ma perché mai doveva temere l’ira di quell’uomo? Cosa mai poteva succedergli in quel momento, all’interno della Gerla? Forse che quel tizio sfilasse di tasca un coltello dalla lama lunga e affilata e gelida
    come il suo sguardo
    e glielo ficcasse in un occhio? Stava per diventare una di quelle notizie che vedeva al telegiornale? Aldo di questo ne era quasi certo. Erano gli occhi, lo sguardo di quell’uomo a terrorizzarlo, occhi privi di coscienza, di sensibilità. Spietati. Perse il controllo della vescica e si bagnò un pochino i pantaloni davanti mentre lo Straniero gli posava le mani sulle spalle. Lo fissò dritto negli occhi restando in silenzio. Erano occhi celesti, freddi, che facevano male, lo sguardo penetrante e gelido era difficile da sostenere e, probabilmente, se fosse stato sobrio Aldo non ci sarebbe riuscito. Invece l’alcol lo fece esibire in una dimostrazione di coraggio, riuscì a mantenere lo sguardo fisso sull’uomo senza batter ciglio, consapevole della sensazione di caldo e umido in mezzo alle gambe.
    Aldo aprì bocca per parlare ma era talmente sconcertato e confuso (e qui l’alcol ci stava mettendo del suo) che non riuscì a dire niente. Parlò invece lo Straniero, la sua voce era calda e profonda e calma, ma calma non è la parola esatta che sovvenne a Maddy mentre ascoltava ciò che aveva da dire. Era glaciale quella parola, nel senso di fredda, o per essere più chiari sembrava priva di emozioni.
    Lo Straniero strinse le dita sulle clavicole di Aldo, non con forza eccessiva ma era comunque una bella stretta e disse: «Non sai quanto siano state illuminanti per me le tue parole» dopo di che, con enorme sollievo di Aldo e della sua vescica, staccò le mani dalle sue spalle e si allontanò uscendo per sempre dalle loro vite.
    Quasi ad esorcizzare la paura che li aveva presi Maddalena e Aldo si strinsero nelle spalle e ripresero la loro discussione come se non fosse accaduto niente. «Solo un momento, torno subito!» disse subito dopo Aldo avviandosi verso il bagno. Rodolfo teneva due dita sporche affondate dentro il bicchiere nel disperato tentativo di recuperare il corpo estraneo che galleggiava beato in un mare di birra. Maddy lo guardò, scosse il capo e continuò a pulire il bancone.

    Un anno dopo Aldo Devito e Maddalena Benedetti sono rispettivamente l’uno davanti a quel bancone e l’altra dietro a guardare increduli il televisore, catturati dalla notizia di apertura del telegiornale. E Aldo sgrana gli occhi e getta fuori dalla bocca un «cazzo!» di sgomento. E Maddy sussurra angosciata: «Povera bambina».
     Ma la loro mente non arriverà mai ad associare ciò che stanno guardando in quel momento allo Straniero incontrato un anno prima. Lo Straniero ormai è sparito dai loro ricordi, mentre la notizia che stanno sentendo al telegiornale se la porteranno nella tomba perché ora sono entrambi certi che anche alla gente comune possono succedere certe cose e provano un profondo e freddo senso di paura.
    Per il resto della loro vita non rivedranno più lo Straniero e per quel che mi è dato sapere al momento neppure a noi sarà dato di ritrovare Maddalena Benedetti e Aldo Devito lungo il cammino che ci apprestiamo a compiere.
      

 

1

 

 

IL tuo nome è Sara Parisi e hai sette anni.
    Il mio nome è Sara Parisi abito in via Augusta al numero sette a Verbania, la mia mamma si chiama Paola, invece il mio papà si chiama Luigi.
 Ripeti di continuo queste parole che hanno assunto una strana e malinconica parvenza di filastrocca. Le ripeti in silenzio, adoperando la voce della mente nel tentativo di memorizzarle. Non vuoi dimenticarle, non vuoi dimenticare da dove vieni, chi sei. Non vuoi scordarti dei tuoi genitori e…
    Billy! Il mio cane si chiama Billy. Mi ero dimenticato di lui, l’altra volta non è successo, questa volta sì. La prossima volta chi dimenticherò?
Nel buio le lacrime iniziarono a premere agli angoli dei tuoi occhi.
    Ancora, un’altra volta ancora, su piccola!
    Sospiri ma senza emettere rumore, troppo rischioso.
    Il mio nome è Sara Parisi e abito a Verbania in via Augusta sette. Con Mamma e papà e Billy.
Te lo ripeti sempre più spesso nel tentativo di mantenere un sottile contatto con la realtà. Una realtà diversa da quella in cui sei sempre vissuta. Drasticamente differente.
    In questo luogo buio l’aria è satura di cattivi odori. Irrespirabile. Non fosse stato per lo spruzzo d’aria che s’insinua lì dentro da un foro posto da qualche parte (ancora, dopo tutto quel tempo, non sei riuscita a capire da quale direzione provenga) saresti già morta asfissiata.
    Nonostante quel minimo ricambio sia sufficiente a far sopravvivere una persona, resta a ogni modo il cattivo odore di marcio, misto a decomposizione, che impregna il posto. Per debellare quello ci vuole qualcosa di più di un misero getto d’aria fresca.
    Da trenta giorni (secondo i tuoi calcoli però sono molti di più e forse, avrai modo di appurare in futuro, i tuoi calcoli sono sbagliati), più precisamente dal momento in cui un uomo (a tutt’oggi per te resta ancora una sagoma nera stagliata sul vetro della finestra di camera tua) si è introdotto furtivamente in piena notte nella tua stanza, portandoti via come un fagotto, strappandoti ai tuoi genitori, alla vita felice e spensierata che avevi, quale deve essere quella di una bambina di sette anni… da trenta giorni appunto, la costante nelle tue giornate è il buio. Un buio nero come le tenebre che precedono la morte. Snervante e destabilizzante.
    La totale assenza di luce si protrae per un periodo che ti sembra non finire mai.
    L’oscurità viene spezzata solo da improvvisi e accecanti, oltre che dolorosi, momenti di luce, durante i quali i tuoi piccoli occhi nocciola, disabituatisi alla vista ti lacrimano e bruciano tanto. A nulla serve tenerli chiusi, la luce riesce a penetrare attraverso la sottigliezza della palpebra e il dolore resta, come se qualcuno ti stia infilato spilli nelle iridi e li picchietta dentro con ritmici colpetti dell’unghia.
    Ma per quanto doloroso, l’improvviso riacquisto forzato della vista è pur sempre un male che va diluendo nel tempo; via via che i tuoi occhi si abituano alla luce. E ogni qualvolta la lampada che pende da un filo agganciato al basso soffitto viene spenta e cessa di proiettare macabre ombre danzanti sul tuo corpicino, sprofondi inghiottita dalle tenebre che ti avvolgono come un mantello di morte e i tuoi occhi tornano all’abituale nero del nulla e la paura viene avanti.
     Mentre che vi sia o meno la luce, l’odore nauseabondo di quel posto resta immutabile. Un tanfo incessante che ti obbligava a brevi e lenti respiri con la bocca. Così facendo perlomeno hai la sensazione di percepire meno quel puzzo.
    Dopo molti giorni trascorsi a respirare un fetore di quel tipo chiunque subirebbe un certo livello d’assuefazione, non di meno è accaduto a te che dopo tanto odorare ti sei vista costretta a cedere il passo, abbassare le difese e lasciare che l’odore di quel luogo penetri in te contagiandoti come un cancro. Sei giunta alla conclusione che deve esserci qualcosa in avanzato stato di decomposizione nei paraggi.
    Da quel poco che sei riuscita a vedere del luogo dove sei tenuta segregata però non hai notato carcasse di animali o altro (e quel altro che aleggia nei recessi della tua mente ti mette addosso una tale strizza che ti si contorcono le budella).
    Le tue giornate trascorrono lente e vuote. Te ne stai rannicchiata in un angolo di quella… non è una casa… non è una baracca… non è neppure una stanza… è… non lo hai ancora capito! È un posto buio e freddo e triste.
    Il posto è grande come una stanza, questo sì che lo hai capito, ha più o meno le dimensioni di quella dei tuoi genitori. Le pareti sono di terra, sconnesse, umide e gelide come la morte, dalle quali sporgono radici di piante che qualcuno ha strappato in alcuni punti per allargare lo spazio di manovra in quel luogo. Le hai viste, le radici, penzolano da ogni dove, come dita di demoni escono dalle pareti e si allungano in una macabro tentativo di afferrarti per portati via. Oltre ad averle viste ne avverti il tocco gelido sulla pelle a ogni cambio di posizione, perché dopo un po’ di tempo trascorso raggomitolata su un fianco ti fa male la spalla e la gamba, inoltre avverti un indolenzimento alla schiena e un formicolio alle gambe.
    Il suolo su cui te ne stai accucciata nel tuo angolino è terroso ma privo di pietre, un particolare questo che hai notato subito. Anzi che hai avuto modo di sperimentare (l’assenza di pietre) quando l’uomo, il cui mezzo busto trenta notti prima si è stagliato contro il vetro di camera tua bloccando il filtrare della luna, (questa è la prima immagine che vedi chiudendo gli occhi, stampata nella tua mente come una cartolina, la prima immagine che hai visto aprendo gli occhi quella notte in seguito al guaito di Billy, quando il terrore ti ha bloccato l’urlo in gola) ti ha portata lì e senza alcun segno di esitazione ti ha, letteralmente, lanciata nel buio, mandandoti a cozzare violentemente per terra.
    Di nuovo… Il mio nome è Sara Parisi, mia mamma si chiama Paola, mio papà Luigi, Billy è a Verbania, arrivato di Natale…
    Sbatti le palpebre confusa, apri gli occhi e fissi il buio. Ti stai assopendo?
    Non devi!
    Non ora!
    Non ancora, prima devi ripetere con chiarezza tutta la frase o ne perderai di sicuro un pezzo. Perché è questo che temi maggiormente, prima o poi il passato si sarebbe cancellato dalla tua mente, col tempo la tua vita come la ricordi sarebbe andata in pezzi e i pezzi si sarebbero sparsi in luoghi inaccessibili della tua testa, dove non li avresti più ritrovati.
    Cambi posizione spostando il peso da un fianco all’altro; avvolta da un buio primordiale ripeti la frase che ti aiuta talvolta a restare lucida. Questa volta con più decisione, più sicurezza.
    Il mio nome è Sara Parisi. Abito a Verbania. In via Augusta sette. Paola e Luigi sono i miei genitori e il mio cane si chiama Billy.
    Nella tua mente rivivi quel momento per l’ennesima volta. Il momento esatto in cui l’uomo ti ha infilato in quel luogo, ti sfila il cappuccio dalla testa (e in quel mentre hai odorato per la prima volta la nuova fragranza di liquami che caratterizza il posto) e dal buio ti afferra da dietro stringendoti una mano attorno al collo. La sua morsa d’acciaio fatta di dita rugose ti ha ricordato un ferro arrugginito o la corteccia ruvida che riveste il tronco degli alberi. Dopo averti afferrata per il collo ti ha premuto l’altra mano sotto il sedere, quindi ti ha sollevata di peso da terra, reggendoti come se pesassi meno di un foglio di carta (a nulla erano valse le tue grida, le suppliche che avevi urlato in lacrime) e lanciata nel vuoto. Hai agitato le braccia roteandole in malo modo ai lati del corpo come una persona che prova a nuotare per la prima volta, hai fatto in tempo anche a volteggiare con le gambe nel vuoto, come se sapessi correre in aria. Il grido ti era morto in gola, respirare ti era stato impossibile durante il tempo trascorso sospesa in aria, e infine il tuo corpicino ha urtato contro un muro fatto di terra e radici. Il viso, la spalla, l’anca e la gamba, tutto il lato sinistro si è scontrato contro il muro di terra che, in seguito all’impatto, si è sgretolato coprendoti, dopo che la forza di gravità ti ha obbligata a scendere in terra ovviamente.
    Avevi perso i sensi e ti eri svegliata sempre al buio e mezza sotterrata.
    In quel luogo che sembra un enorme bara scavata sotto terra, visto la conformità terriccia di pareti e pavimento, ci sei arrivata da un mese circa, posto che il tuo calendario mentale sia ancora in linea coi tempi (sei arrivata a sessantadue orsacchiotti viola con la conta, uno per ogni volta che dormi molto. E duecentosette conigli gialli, uno per ogni sonnellino, ma arrivata allo stremo delle forze inizi a confondere i conigli gialli con gli orsacchiotti viola e non sei più tanto sicura di aver tenuto bene i conti… secondo il tuo calendario animale sei lontana da casa da due mesi circa. Forse è ora di iniziare con le rane blu!).
    Dove hai trascorso il mese precedente non lo sai, così come non hai idea di dove ti trovi in questo momento, rifletti con ironia un po’ isterica. Dei granelli di terra si staccano dai tuoi capelli sporchi e ti cadono sul dorso delle mani che stringi in grembo. Ti scrolli il terriccio dalle mani in un gesto che ripeti spesso durante tutta la giornata.
    Prima di arrivare lì sei stata in un’abitazione, questo lo hai capito grazie a dei particolari non da poco come il traffico, scarso ma pur sempre traffico.
    Quello era stato almeno un segno che c’era la vita intorno a te. Per giorni hai ascoltato le auto fermarsi sotto la tua finestra. Ogni volta sperando che fossero venuti a salvarti. Ma nessuno aveva mai fatto irruzione in quel luogo. Nessuno era venuto a riportarti alla vita. Non hai mai potuto muoverti quando eri in quel posto perché eri stata tenuta legata al centro della stanza da una catena agganciata al pavimento.
    Oltre al traffico vi era stato un altro particolare che ti aveva indotta a credere di trovarti in un’abitazione: il caldo. O meglio il tepore dell’ambiente ti aveva fatto supporre fosse dovuto al riscaldamento domestico. Anche in quel luogo sei rimasta sempre al buio ma con un'unica differenza, quando eri stata segregata lì avevi avuto un cappuccio in testa per tutto il tempo, legato con una corda stretta intorno alla gola. Respiravi attraverso il tessuto e delle mani te lo alzavano, allentando il nodo alla gola, di quel tanto che bastava a farti mangiare. Una volta hai provato a sciogliere il nodo della corda che avevi intorno al collo per sfilarti il cappuccio, pessima idea.
    Eri rimasta in silenzio, quella volta, in ascolto di eventuali rumori, acuendo gli altri sensi per verificare l’assenza di quell’uomo nella stanza prima di fare il tentativo. Avevi appena cominciato a provare a slegare il nodo quando, preceduto da un fendente improvviso che aveva mosso l’aria davanti a te, ti era rovinato sulla faccia un colpo duro come la pietra. Un pugno doveva essere stato, che ti aveva fatta cadere di lato. Da quel momento in poi ti erano state legate le mani dietro la schiena con una corda spessa. La corda ti ha procurato abrasioni intorno ai polsi che adesso ti bruciavano sempre più…forse ti hanno fatto infezione le ferite, ma quella non era l’unica infezione o bruciore che ti preoccupa…
    In seguito al colpo subito, la guancia destra si è gonfiata e il rigonfiamento è salito sino all’occhio sebbene in quel punto sia meno accentuato. Avverti un lieve pulsare in quella parte del viso e mangiare ti procura dolore. Nei giorni seguenti l’ematoma si è assorbito e ormai il dolore è scomparso.
    Sono questi i punti di riferimento a tua disposizione per capire che il tempo sta trascorrendo, che la vita prosegue, questi e i bisogni fisiologici.
    Te li fa fare dentro sacchetti di plastica come quelli che si usano normalmente per congelare il cibo.
    È stato la mattina dopo essere stata rapita, l’uomo ti ha parlato per la prima volta, con voce calma, quasi gentile ma che lascia trapelare freddezza e la totale assenza di emozioni: «Se devi fare qualcosa usa questi sacchetti e bada di farla dentro altrimenti saranno guai per te.» Non ha aggiunto altro e d’istinto hai chiesto, forse con troppa rabbia a giudizio di lui: «Perché mi fai questo? Chi sei?» e il taglio al centro del labbro superiore che si è aperto in seguito a un colpo ricevuto, ti ha fatto capire che devi parlare solo se interpellata, lui non lo ha detto esplicitamente, ma lo hai capito ugualmente.
    A distanza di sessantadue giorni (secondo il tuo calendario animale) quel taglio al labbro superiore, proprio dove le labbra si uniscono donandoti quella forma a V che alla tua mamma piace tanto, non si è ancora cicatrizzato, poiché ogni qualvolta apri la bocca per mangiare, la sottile e fragile crosta secca si lacera e piccoli guizzi di sangue vanno ad aggiungersi al piatto del giorno.
    Sono rare le occasioni in cui l’uomo ti ha rivolto la parola. Sei  propensa a pensare che per la maggior parte del tempo sei lasciata sola, ma l’esperienza ti ha insegnato che non hai da fidarti dei tuoi sensi, i quali già una volta ti hanno tradita.
    Il fianco si è di nuovo intorpidito. Cambi posizione e avverti le giunture delle ossa schioccare come se stessi per smontarti. La  mano urta il sacchetto di plastica posato in terra lì vicino. Il sacchetto contiene le tue feci di quella mattina. Presto l’uomo verrà a portarti da mangiare e porterà via il sacchetto.
    Poco dopo, mentre stai assorta in un sogno che ti sembra la realtà arriva improvviso l’ormai consueto stridere di cardini. Ti svegli di soprassalto e tremi spaventata. Per te quel rumore sono le urla di demoni orrendi che vengono a prenderti per portarti negli inferi dove ti tortureranno per l’eternità.
    Passi ovattati che scendono (sì, scendono, perché questa è la sensazione che hai udendo quei rumori, esattamente l’impressione che qualcuno stia scendendo nella tua direzione) e una porta vicino a te, due metri forse tre, che si apre.
    Al buio arranchi all’indietro rannicchiandoti contro la parete, infilando il piccolo corpo nell’intrico formato dalle radici. Le ferite ti bruciarono, le ossa gracchiano il loro disappunto e il cuore prende a martellarti nel petto.
    È tornato!

 

 

2

 

 

QUEL martedì mattina di fine gennaio Barbara Flanella si svegliò di cattivo umore, cosa inconsueta in quanto era una persona estremamente positiva e amante della vita, e quando scendeva dal letto col piede sbagliato le riusciva difficile persino pettinarsi. Difatti impiegò più del dovuto per domare i lunghi capelli biondi. Alla fine però riuscì comunque a sistemarli in maniera decente. Era una ragazza energica, scattante e positiva e quel giorno le occorrevano tutte le sue caratteristiche migliori per fare ciò che doveva.
    Inoltre c’era il fatto che era scesa dal letto col piede sbagliato, e non metaforicamente parlando.
    Bah, mettiamola così, tutti, chi più e chi meno, hanno delle fisime. Per Barbara Flanella quella di metter giù il piede destro la mattina era più che una fissazione. Era un ossessione la sua che derivava da una paura di quando era bambina. Le era stato raccontato una volta da zio Salvatore, fratello di suo padre (probabilmente solo per spaventarla) che di notte quando tutti dormivano il Nindolo, un essere mostruoso dalle dita lunghe e gli occhi rossi (chissà perché gli adulti raccontano sempre che i mostri hanno gli occhi rossi) se ne sgattaiolava fuori dal suo nascondiglio e rapiva i bambini per impadronirsi dei ricordi felici, poi li riportava a casa e la mattina i malcapitati non rammentavano nulla di quanto accaduto loro. L’unico modo, sostenne quel pomeriggio zio Salvatore (doveva essere stato a un ritrovo tra parenti, forse per qualche cresima o comunione, Barbara non ricordava l’evento) per sapere se si era stati rapiti, stava spiegando lo zio a una Barbara più che terrorizzata, era di badare con che piede si era andati a dormire la sera, cioè l’ultimo piede che si era staccato da terra. Se la mattina il primo a toccare il pavimento era lo stesso della sera, allora non si era stati rapiti, ma se avveniva il contrario…
    Ovviamente una volta cresciuta, intorno ai dieci anni, Barbara aveva capito che il Nindolo non esisteva. Tuttavia le si era insinuato nel DNA l’abitudine di sollevare per ultimo il piede destro quando si coricava e poggiarlo per primo la mattina. Inoltre essendo lei molto superstiziosa ci teneva a quel rituale. E, così volle il destino, la prima volta che era scesa con quello sbagliato coincise col giorno in cui morì sua sorella Amanda da tempo malata di leucemia. Ma questa è un’altra storia che forse salterà fuori più in là.
    A rendere la giornata ancora più triste c’era stato il risveglio in solitudine; la sua dolce metà si era alzato ed era andato a lavorare senza che lei se ne fosse accorta. Odiava stendere il braccio sul letto e non sentire il corpo caldo di lui. Secondo Barbara si viveva in un mondo la cui situazione instabile obbligava le persone a godere di certi momenti.
    Visto l’umore pessimo di quella mattina (e il preoccupante particolare del piede sinistro) il silenzioso abbandono richiedeva una punizione e Barbara conosceva più di un sotterfugio per vendicarsi. Dopo essersi vestita prese un profumo dal comodino di lui e se lo spruzzò addosso, come rappresaglia non era male. Tornato a casa lui avrebbe sentito aleggiare nell’aria il suo profumo, avrebbe capito e se la sarebbe presa un pochino e poi lei si sarebbe fatta perdonare.
    Sapeva come farsi perdonare.
    Aveva indossato il giaccone pesante e stava per uscire di casa, la mano sulla maniglia della porta quando lo sentì. Netto. Distinto. E proprio in quel punto: alla bocca dello stomaco. La sensazione era sempre la stessa, due dita che premevano forte contro gli addominali.
    Come sempre in quei momenti il cuore prese a batterle più forte e avvertì l’intensa emozione al petto, come se le stesse prendendo fuoco. Erano i chiari segni del tocco.
    Era stata toccata. Un’altra volta!
    Sì appoggiò al muro con la spalla e chiuse gli occhi in cerca della rivelazione. Attese in silenzio, con gli occhi che tremavano come impazziti sotto le palpebre, entrò in quello stato di concentrazione che le veniva spontaneo quando era toccata. Tutto intorno a Barbara si dissolveva quando riceveva il tocco. E questo stato di trance in cui cadeva le aveva procurato non pochi problemi in passato.
    Barbara attese la rivelazione, il motivo per cui era stata toccata. Pazientò ancora ma la sua mente viaggiava a senso unico. Per quanto si sforzasse di liberarla, così da permettere al tocco di farsi avanti per mostrale cioè che aveva da mostrare, non ci riusciva e tornava a pensare con insistenza alla cosa che doveva fare quella mattina.
    Che sia questo il tocco? Ebbe a pensare con ansia crescente, ma forse lo aveva pensato solo perché era una cosa a cui teneva molto. Una situazione in cui era troppo coinvolta.
    Fatto sta che non ebbe rivelazione alcuna. O se l’aveva avuta era per forza di cose collegata a ciò che doveva fare di lì a poco.
    Si massaggiò lo stomaco dove avvertiva ancora lievemente la pressione delle due dita, quindi trasse un profondo respiro, attese ancora un attimo che il cuore tornasse a un ritmo normale e uscì finalmente di casa.
    Fuori l’aria era gelida, come ghiaccio sulla pelle. Per la strada il traffico era poco e dai comignoli dei tetti delle case vicine usciva un fumo bianco che si alzava lento verso il cielo.
    Partì da Gallarate alla volta di Verbania verso le 9. Aveva imboccato l’autostrada GravellonaToce alla guida della Bmw 320 nera quando decise di affrontare una delle cause del suo malumore di quel giorno.
    Premette un tasto sul volante e dalle casse uscirono tre squilli in rapida successione.
    «Papà» disse Barbara e le casse le rimandarono la sua voce: «Papà» segno che la chiamata vocale era inoltrata.
    Nei pochi secondi di attesa che precedettero il collegamento telefonico Barbara Flanella, di anni trentaquattro, giornalista freelance, si concentrò per uscire dal mondo in cui viveva ed entrare in quello del padre, fatto di affari, multinazionali, e soldi. Il cellulare di suo padre risultava spento, allora Barbara premette nuovamente il pulsante sul volante e disse: «Papà studio» le casse rimandarono la conferma.
    Suo padre, Giacomo Flanella era presidente di una società del settore petrolifero. Il fatturato annuo era da capogiro, con movimenti mensili di denaro da milioni di euro. In realtà la società petrolifera era stata di appartenenza di Giulia, la madre di Barbara che a sua volta l’aveva ereditata dopo la morte del padre.
    Giacomo Flanella aveva assunto la carica di presidente dopo che la moglie si ammalò e dopo la sua morte ne ereditò il pacchetto azionario di maggioranza. Prima di morire Giulia aveva lasciato una piccola fortuna alla sua unica figlia. Aveva depositato sul conto corrente di Barbara circa venti milioni di euro più un discreto pacchetto azionario della società. Un domani Barbara Flanella sarebbe diventata azionista di maggioranza grazie alle azioni lasciatele dal padre.
    Questa prospettiva non rendeva felice Barbara, che sin da piccola era stata cresciuta in mezzo ai soldi. Abituata ad avere tutto senza il minimo sforzo. Sembra strano da credere, ma delle volte chi è cresciuto nella ricchezza sente uno strano vuoto dentro di sé. Barbara quel vuoto lo aveva avvertito presto, non molto tempo dopo che Amanda Flanella, sua sorella maggiore, se n’era andata. E quel vuoto aveva spinto Barbara ad abbandonare tutto e tutti per cercare la propria strada da sola. Così se n’era andata di casa a vent’anni e aveva proseguito gli studi da giornalista.
    Non era certo il suo sogno trascorrere le giornate chiusa in un ufficio o a fare riunioni. E di certo i soldi non le mancavano anche senza la società di famiglia. Ma Giacomo Flanella la pensava diversamente, voleva a tutti i costi vedere la figlia a capo della società e tentava con ogni mezzo di farle cambiare idea.
    Quella mattina Barbara si accingeva a rifiutare per l’ennesima volta l’offerta del padre. Offerta che le veniva posta più o meno due volta al mese.
    Dopo due squilli rispose la segretaria di suo padre. Carla era una donna di cinquantadue anni. Aveva una voce calda e impostata. Barbara la immaginò seduta dietro la scrivania, i capelli tinti di nero, il trucco leggero, vestita elegante.
    «Effe e Gi Corporation in cosa posso esserle utile?»
    Barbara mise la freccia e si spostò sulla corsia di sinistra accingendosi a superare un grosso tir: «Ciao Carla sono Barbara, potrei parlare con mio padre?»
    «Salve signorina Flanella…» si trovava proprio affianco al TIR e l’imponente mole del mezzo creò un vuoto d’aria che la Bmw contrastò egregiamente senza la minima sbandata, «…verifico la disponibilità di suo padre, attenda in linea.»
    «Grazie.»
    Dalle casse uscì un’armoniosa musica d’attesa. Si trattava di Serenade di Schubert e Barbara fu assalita dai ricordi di sua madre. Quella era la sua musica preferita. Negli ultimi giorni di vita, quando la malattia l’aveva costretta a letto, sua madre le aveva chiesto spesso di fermarsi ad ascoltare un po’ di musica. Allora Barbara accendeva lo stereo, inseriva un cd di musica classica e sedeva accanto alla madre morente tenendole la mano e sorridendole, sforzandosi di non piangere quando notava il viso provato della madre contrarsi a causa di fitte di dolore. Ora riemerse da quel ricordo avvertendo gli occhi inumidirsi. Sbatté le palpebre velocemente e, superato il TIR, si spostò nuovamente sulla corsia di destra.
    Grazie a Dio la musica fu interrotta e il dolore nostalgico dei ricordi si dissolse: «Signorina Flanella?»
    «Sì Carla.»
    «Vostro padre si libera tra qualche minuto, ha chiesto se può attendere altrimenti la richiama lui più tardi.»
    «Attendo.»
    Il traffico era abbastanza intenso. La giornata era grigia e umida. Su entrambi i lati dell’autostrada sfilavano prati e alberi. Un leggero strato di ghiaccio ricopriva ogni cosa.
    «Bene signorina Flanella, la saluto…»
    «Carla?»
    «Sì?»
    «Per favore, potrebbe evitare d’inserire la musica, può lasciare il telefono muto mentre attendo?»
    «Ma certamente signorina, le auguro una buona giornata.»
    «Grazie Carla, buona giornata anche a te.»
    La linea divenne silenziosa come un cimitero di notte. Barbara guardò a sinistra, oltre la corsia opposta dove sul prato gelato stava avanzando una falce di sole che presto avrebbe sciolto il ghiaccio. Poi volse gli occhi al cielo che aveva di fronte: le nuvole nere all’orizzonte lasciavano intuire che quella del sole era una fugace apparizione.
    Mentre attendeva lo scontro col padre, mentre le auto sfrecciavano alla sua sinistra rivide mentalmente quello che doveva fare quel giorno. Ma aveva appena iniziato quando la voce di suo padre irruppe dalle casse.
    «Ciao Barbi.» La voce era calda, il tono gentile nonostante il fumo di anni lo avesse reso roco.
    «Ciao papà, come stai?»
    «Starei meglio se vedessi scorazzare in giro per gli uffici mia figlia.»
    «Già ti capisco, che razza di figlia che ti ritrovi eh?»
    Ci fu un attimo di silenzio in cui Barbara si preparò ad ascoltare la domanda e suo padre a porla. Anticipata da un colpo di tosse la voce di Giacomo Flanella uscì dalle casse: «Allora accetti la mia offerta?» Invano Giacomo aveva tentato di camuffare le proprie emozioni, Barbara sentì in quella domanda tutta la speranza del padre, il disperato bisogno di avere la propria figlia accanto nel lavoro. E come sempre Barbara fece un respiro profondo prima di rispondere. Puntò lo sguardo davanti, posandolo sopra i numeri e le lettere della targa dell’auto che la precedeva: «Mi dispiace pa’ ma devo rifiutare la tua offerta…» e come sempre faceva Barbara alimentò una nuova vena di speranza in suo padre, perché da brava figlia qual era, visto quanto gli voleva bene, non riusciva a lasciarlo con quel semplice no, «…non è ancora il momento per me di ritirarmi in un ufficio, sai di cosa parlo vero?»
    «Sì, sì, capisco…» c’era frustrazione nella voce di Giacomo Flanella, «…sempre quel tuo dannato hobby.»
    «Papà!» proruppe lei, «non è un hobby, è un lavoro, quando lo capirai?»
    «Tu non hai bisogno di lavorare e mi chiedo quando tu capirai questo!»
    «Ognuno deve essere libero, nella propria vita, di fare quello in cui crede, di perseguire i propri ideali, almeno in questo sarai d’accordo con me.»
    Barbara sapeva come rigirarsi suo padre, sapeva quali punti toccare o dove andare a parare per spostare la discussione su un terreno favorevole.
    «Fai quello che vuoi, tanto io non ho voce in capitolo.» Rassegnazione nella voce.
    «Dai pa’.»
    «Il mio parere non conta neppure quando voglio darti un consiglio sugli uomini che frequenti.»
    Barbara avvertì una sensazione di calore al petto e un impeto d’ira farsi avanti, strinse le dita attorno al volante: «Fare controlli sulla persona che amo non mi sembra un modo per esprimere il tuo parere.»
    «Era solo per il tuo bene, cosa c’è di male se voglio sapere che razza di gente frequenti.»
    Un principio di rabbia s’insinuò in Barbara, partendo dal ventre stava rapidamente risalendo verso la testa. Premette sul pedale dell’acceleratore, guardò lo specchietto di sinistra e si spostò nella corsia di sorpasso, accelerando a tavoletta.
    «Io non frequento nessuno, chiaro? Non fartelo ripetere ogni volta…» Ecco! la situazione era degenerata come sempre accadeva «…Io abito con una persona e lo amo. Questo non è frequentare, chiaro papà?»
    «Permettimi almeno di sperare che presto capirai quale tremendo sbaglio tu stia commettendo e aprirai gli occhi.»
    «No, non te lo permetto! So che tu preferiresti vedermi sposata con il rampollo della ricca famiglia di turno ma infelice, piuttosto che al fianco di una persona brava, che amo, la cui unica colpa è quella di non avere il conto in banca congruo ai tuoi standard.»
    «Qui non si sta parlando di soldi.»
    «Come no! Con te tutti i discorsi ruotano attorno al denaro.»
    «Va bene, questo te lo concedo visito che il denaro è il motore che fa girare il mondo, ma qui stiamo parlando di altro.»
    «Ad esempio?»
    «Il suo lavoro, tanto per cominciare e il tuo maledetto hobby. Non mi va di accendere la TV e vedere mia figlia che trasmette da chissà quale luogo sperduto.»
    Barbara sentì le guance avvampare, si costrinse a mantenere la calma visto che l’ultima cosa di cui aveva bisogno quel giorno era un litigio di primo mattino con suo padre (anche se al riguardo era già a metà dell’opera).
    «Ti ripeto papà che il mio è un lavoro a tutti gli effetti. Adesso devo salutarti, ho da fare.»
    Seguirono secondi di imbarazzante silenzio in cui entrambi si congedavano mentalmente, poi: «Okay, ciao figliola, ti aspetto venerdì sera a cena, ho prenotato un tavolo al ristorante preferito di tua madre qui a Milano.»
    «Sì, pa’ a venerdì. Ciao.»
    La conversazione terminò e Barbara poté finalmente trarre un profondo respiro. Anche se sapeva ormai per abitudine che era tutto rimandato al prossimo venerdì.
    Lungo il tragitto in autostrada si fermò per una breve sosta in autogrill dove consumò una rapida colazione a base di succo d’arancia e croissant al cioccolato, circondata da sconosciuti e pregando che nessuno la riconoscesse. C’era stato un momento quando aveva ordinato la colazione al barista in cui aveva temuto di essere stata riconosciuta, e sicuramente qualcuno dei presenti lo aveva fatto, poiché lei era molto famosa e amata dalle persone. Questa fama e il rispetto che la gente aveva per il suo lavoro non aiutava però le persone a farsi avanti quando la incontravano per la strada. Spesso i personaggi che amiamo alla televisione non ci sembrano gli stessi quando li incontriamo dal vivo, o semplicemente siamo così emozionati e increduli dalla fortuna che c’è capitata nel trovarci nello stesso ristorante loro che non abbiamo il coraggio di farci avanti a chiedere un autografo, bloccati dal dubbio: e se non fosse lui?
    Il fugace attimo di silenzio che si era propagato nel locale dopo la sua ordinazione aveva portato Barbara Flanella a credere di essere stata riconosciuta, se non altro per la sua voce. E le occhiate curiose che le si posavano addosso mentre consumava il cappuccino e la brioche avevano confermato i suoi sospetti. Spesso era stata fermata per la strada da signore che le facevano i loro complimenti sorridendo con sincerità. Altre volte uomini e ragazzi le chiedevano il permesso di fare una foto insieme da tenere come ricordo. E molte volte… troppe!… gli uomini lasciavano cadere i loro sguardi sul suo fondoschiena. Questo furtivo lancio di sguardi al suo sedere la mandava in bestia, ma non poteva farci niente, e d’altra parte non poteva biasimare quegli uomini se non resistevano a posare lì i loro occhi. D’altronde il suo era stato il sedere più visto nel mese di luglio dello scorso anno. Non per volontà sua, ovviamente. Cosa ancora più frustrante per lei era l’essere venuta a sapere che il suo era stato il sedere più cliccato in Internet e la famosa foto che la ritraeva da dietro, con la minigonna di cotone nera che si era sollevata mostrando le sue tonde curve, mentre si apprestava a scavalcare un cumulo di macerie che una volta era stato un supermercato alla periferia di Milano, era stata la più scaricata nel Web, sempre nel mese di luglio.
    Ultimamente non sopportava più di essere riconosciuta dalle persone. Non reggeva più tutti quei complimenti: “Oh lei è Barbara Flanella? Complimenti” “L’ho vista ieri sera al telegiornale, è davvero brava” “Sono molto dispiaciuta per quella bambina”.
    Non reggeva più gli sguardi ammiccanti. Essere fermata e sentire le lodi da gente che non aveva mai visto. Dover ringraziare volti sconosciuti.
    Sorridere anche quando non ne aveva voglia a facce mai viste iniziava a essere una situazione logorante, soprattutto in quel periodo.
    Non era la fama ad averla spinta a studiare per diventare giornalista e non erano neppure i soldi ad alimentare la sua passione, lo scopo per cui aveva scelto di essere una giornalista freelance era informare la gente di ciò che accadeva. Grazie all’immenso conto in banca lasciatole dalla madre non doveva far conto sul proprio stipendio per campare, così poteva stare dietro a una storia quanto voleva. Poteva girare e montare i servizi con calma e soprattutto bene.
    In passato, grazie a questa combinazione di fattori (ma soprattutto grazie al toccoche si era fatto avanti nei momenti più opportuni) aveva potuto prendere in affitto un appartamento al secondo piano del palazzo di fronte alla moschea della città di Antate in provincia di Varese. Aveva trascorso un mese in appostamento filmando ventiquattrore su ventiquattro chiunque entrasse o uscisse dalla moschea. Infine aveva montato il servizio che successivamente aveva venduto alle reti televisive Mediaset. Fu proprio grazie alla messa in onda di quel servizio che la polizia riconobbe diverse persone sospettate di far parte di una cellula terroristica. Fu proprio grazie alle immagini girate da Barbara Flanella che i carabinieri fecero irruzione nella moschea arrestando trentacinque persone con l’accusa di assoldare kamikaze da mandare nei paesi occidentali a compiere i loro massacri.
    Fu sempre grazie alla caparbietà di Barbara Flanella (e sempre grazie al tocco) e alle immagini di un suo servizio che venne sgominata una banda di pedofili che operava in provincia di Milano.
    Questi e altri servizi avevano reso famosa la giornalista trentaquattrenne Barbara Flanella, incluso, ovviamente, il servizio al supermercato.
    Quella mattina lei si era trovata nei paraggi per girare un servizio su un cantiere che iniziava i lavori di restauro di un asilo nido. Era l’inizio di luglio e faceva un caldo terribile. Barbara vestiva in camicetta azzurra senza maniche e in minigonna nera.
    Stava parlando alla telecamera, quando fu toccata allo stomaco da quelle due dita misteriose. In un attimo perse la cognizione di dove si trovava e di cosa stava facendo, chiuse gli occhi e liberò la mente in attesa dalla rivelazione.
    La ricevette eccome, la rivelazione… Vide nitida come una linea nera su un foglio bianco l’immagine di un cumulo di macerie, di gente sgomenta che si guardava in faccia senza sapere cosa fare. In quello stato di trance Barbara aveva indirizzato la sua attenzione alle macerie, una collina di cemento e detriti. Nella rivelazione il suo sguardo era penetrato dentro, aveva potuto così vedere le persone intrappolate e cosa ancora più importante (che poi era il vero messaggio) aveva potuto vedere che se nessuno avesse fatto niente per tirarli fuori all’istante, senza attendere i soccorsi, sarebbero tutti morti in seguito all’esplosione di un condotto del gas.
    Riemerse dalla rivelazione o visione con gli sguardi curiosi e confusi del cameraman e dei presenti puntati su di lei. Barbara si guardò attorno chiedendosi cosa, ma soprattutto quando, stava per accadere, quando improvvisamente era avvenuta l’esplosione a un isolato di distanza. Lei, come molti altri, era accorsa per vedere cosa fosse successo. Esattamente come nella visione si era trovata davanti a una montagna di macerie e in un primo momento nessuno sapeva cosa fare. Poi Barbara prese la situazione in mano e si mise a dare ordini. La scena si sbloccò come se qualcuno avesse tolto la pausa dal videoregistratore durante la visione di un film e tutti si misero in moto. Alcuni servendosi dei telefonini per chiamare carabinieri, vigili del fuoco e ambulanze. Altri se ne stavano lì con la bocca aperta a guardare increduli il mucchio di macerie da cui si alzava una polverosa nuvola grigiastra. Altri piangevano sgomenti informando i presenti che il supermercato era pieno di gente. Senza pensarci due volte Barbara Flanella aveva detto al suo cameraman di smettere di girare e di seguirla per andare a dare una mano. Giulio Canta, a cui lei si affidava quando aveva bisogno di un cameraman per qualche servizio, aveva cinquantasei anni e nella sua vita professionale aveva visto, attraverso il suo obbiettivo, molte guerre. Era un esperto cameraman e un buon amico per Barbara. Giulio senza perder tempo aveva fatto cenno di sì e posato la telecamera in terra.
    Poi lei e Giulio si erano avvicinati alle macerie seguiti dalle altre persone.
    Da un buco che si trovava due metri sopra di loro era sbucato il braccio di una persona e una richiesta di aiuto era sgorgata fuori da quel tugurio sotto forma di una voce femminile gracchiante. Fu a quel punto che Barbara Flanella prese la decisione di arrampicarsi sulle macerie per aiutare quella persone e quante altre avesse potuto. Lei aveva un vantaggio rispetto a tutti, lei sapeva come sarebbe finita se non avesse dato loro una mano. E fu proprio in quel momento che senza pensarci si tirò su la gonna così da essere più agile nella scalata. E fu sempre in quel mentre che qualcuno (non si seppe mai chi) nel riprendere la scena con la propria videocamera digitale aveva zumato sul fondoschiena in bella vista di Barbara Flanella, immortalando le tonde natiche divise da un lembo di stoffa nero per sempre su digitale e facendo di una giornalista conosciuta e amata, una donna famosa e desiderata da molti.
    Lei però ora quella celebrità non la voleva, non l’aveva mai voluta se per questo.
    Fortunatamente nessuno in autogrill sembrò riconoscerla, o se così era stato nessuno ebbe il coraggio di sfidare la sorte rischiando un: “no non sono io, si è sbagliato” con conseguente figuraccia. Solo il barista aveva iniziato a fissarla con una certa insistenza. Poteva anche essere che la fissava semplicemente perché era bella, ma Barbara si vide comunque costretta ad affrettare i tempi. Salì in auto e si rimise in autostrada.
    Sintonizzò la radio per ascoltare un radiogiornale, da brava giornalista doveva tenersi informata sui fatti che accadevano nel mondo.
    Le notizie purtroppo erano sempre le solite: morti in Irac tra i soldati statunitensi o della coalizione, una rapina a un furgone portavalori in provincia di Verona, un uomo che aveva massacrato la moglie e i due figli di quattro e tre anni a colpi di accetta, poi le notizie finanziare con i titoli in borsa, lo sport e il meteo. 
    Barbara Flanella scosse tristemente la testa, nessuna notizia sulla sorte della piccola Sara Parisi.
    Ormai era una notizia vecchia di un mese. Non c’erano novità degne di nota sul rapimento e i telegiornali o radiogiornali non ne parlavano più, ma Barbara sapeva che quel giorno tutti i TG avrebbero parlato nuovamente del rapimento di Sara Parisi.
    Spostò la radio mettendo una frequenza musicale mentre rifletté sul fatto che quello era un gran brutto periodo nel mondo. C’erano le guerre, i terroristi, la politica che andava in malora, il continuo aumento del prezzo del petrolio, l’Euro troppo alto, il Dollaro troppo basso… ed era un gran brutto periodo anche per lei, aveva gridato al lupo già due volte facendo accorrere i carabinieri e la polizia sul presunto luogo in cui poteva essere tenuta segregata Sara Parisi. In entrambe le occasioni (i titoli ai TG suonarono più o meno così: “Svolta nelle indagini sul rapimento della piccola Sara Parisi”) la sua soffiata si era rivelata un buco nell’acqua. La sua credibilità era stata messa in discussione dalle forze dell’ordine: “troppo coinvolta” le avevano detto.
    Un dubbio l’assalì, mentre “Electricity” di Elisa usciva dalle casse e lei svoltava a destra all’uscita di Verbania: aveva portato tutta l’attrezzatura? Fece un rapido censimento mentale della roba che aveva caricato nel bagagliaio quella mattina: computer portatile, telecamera digitale, tre piedi, luci.
    Sì c’era tutto!
    Tirò un sospiro e accelerò.
    La giornata era cupa, il cielo grigio prometteva pioggia, faceva freddo e l’ardua prova che l’attendeva peggiorava il tutto.
    Arrivò davanti la casa dei coniugi Parisi in perfetto orario, parcheggiò l’auto davanti al pesante cancello di legno della villa e scese stiracchiandosi. Notò al primo piano una tenda che veniva scostata, una sagoma stagliata contro il vetro e un attimo dopo la porta di casa Parisi aprirsi.
    Paola Parisi uscì e andò ad accoglierla. Indossava un pesante cappotto nero, un paio di jeans chiari e un maglione celeste, i lunghi capelli neri erano legati con un elastico.
    Barbara finse di non vederla e si diresse dietro la macchina iniziando a scaricare l’attrezzatura.
    Mentre se ne stava piegata dentro il portabagagli sentì il cancello cigolare, dei passi avvicinarsi e una persona fermarsi al suo fianco facendole ombra. Barbara si drizzò e non appena incrociò lo sguardo di Paola Parisi le si inumidirono gli occhi e sentì un tuffo al cuore. Era quello l’effetto che le faceva vedere quella donna. A nulla era valso un attimo prima evitare di osservarla mentre si avvicinava. E l’essere a conoscenza del gesto che marito e moglie si apprestavano a compiere con la sua complicità peggiorava le cose.
    Paola fece un passo verso di lei e l’abbracciò. Barbara contraccambiò l’abbraccio e sentì il corpo esile di Paola vibrare contro il suo.
    Si sforzò parecchio per ricacciare indietro le lacrime e le carezzò i capelli .
    «Ehi così non va bene. Ti avevo detto che non volevo vederti piangere. Dai calmati» sussurrò Barbara.
    «Lo so, scusa, è solo che non ci riesco. Non c’è giorno che passa senza che abbia pianto, ormai mi sono abituata, non ci faccio più caso.»
    Barbara cambiò discorso, sapeva che questo aiutava Paola a calmarsi: «Luigi?»
    «Ci sta aspettando in casa. È teso Barbara, non credo ce la faccia.»
    «Non preoccuparti, se non ve la sentite potremo sempre rimandare.»
    Paola Parisi strinse gli occhi fino a farli diventare due piccole fessure e fissò quelli verdi di Barbara. «Io non mi tiro indietro, se non ce la farà lui, lo farò io.»
    Barbara strinse le labbra, «come vuoi Paola, io sono a vostra disposizione.»
    «Lo so e te ne siamo grati, dai vieni.»
    Barbara si caricò in spalla il borsone di tela nero che conteneva parte dell’attrezzatura, passò a Paola le luci e il portatile e afferrò il tre piedi. Chiuse l’auto inserendo l’antifurto, le frecce emisero due rapidi bip, e seguì Paola dentro il cancello.
    Un attimo prima di varcare la soglia Barbara guardò il cielo plumbeo, grosse nuvole nere provenenti dalla Francia si stavano ammassando sopra la Val Grande, ebbe quasi la sensazione di avvertire una leggera pressione allo stomaco, ma non fu toccata dalle dita invisibili ed entrò.
    Appena entrata percepì il calore e il profumo del camino. Seguì Paola lungo il corridoio d’ingresso, le pareti erano perlinate con legno scuro fino a un metro e settanta, poi erano rivestite da carta da parati azzurrina in cui spiccavano disegni floreali.
    La prima volta che era entrata in quella casa Barbara aveva trovato quella carta da parati un po’ pesante abbinata alle perline scure ma col tempo si era abituata e ora non ci faceva più caso.
    Seguì Paola Parisi e passò sotto l’arco a sinistra arrivando nel soggiorno dove ad attenderle si trovava Luigi Parisi che si teneva impegnato sistemando la legna nel camino.
    Il soggiorno somigliava molto all’ingresso.
    Anche qui le pareti erano rivestite di perline ma a differenza dell’ingresso qui la carta da parati era color pastello di un giallo chiaro un colore caldo e morbido che donava all’ambiente freschezza e luminosità.
    «Ciao Luigi» disse Barbara adagiando a terra il borsone e gettando uno sguardo a Billy, il cane meticcio che avevano regalato a Sara l’anno prima. Billy era seduto sul davanzale della finestra che dava sulla strada. Aveva il pelo color nocciola. Si trovava nella posizione esatta dell’ultima volta in cui lei era stata lì. E Barbara sapeva che il cane sostava sul davanzale ormai da trenta giorni, da quando la sua padroncina era stata rapita. Quella notte, la notte del rapimento, il cane era stato narcotizzato con una siringa, la scientifica aveva dedotto dalle rilevazioni che il rapitore aveva sparato la piccola siringa servendosi di una cerbottana; il rapitore sapeva del cane, sapeva che l’animale, nonostante fosse solo un cucciolo, accorgendosi della presenza di un estraneo avrebbe fatto un baccano tale da svegliare la piccola se solo avesse fiutato qualcosa… e questo era un altro punto oscuro nella faccenda: come faceva il rapitore a sapere del cane?
    Luigi si voltò e si alzò andandole incontro. Aveva l’aria tesa. Occhiaie da primato. Doveva essere rimasto sveglio tutta la notte.
    «Ciao Barbara, accomodati.»
    Si strinsero la mano e andarono tutti a prendere posto sul divano che si trovava davanti al camino.
    «Ehilà Billy!» fece Barbara al cane. Billy non si voltò a guardarla, l’aveva vista arrivare dalla finestra, ma si limitò a salutarla scodinzolando la coda senza distogliere l’attenzione dalla strada, come se da un momento all’altro dovesse sbucar fuori, magari correndogli incontro, la sua padroncina.
    Barbara notò le orecchie di Billy ruotare e drizzarsi verso la sua direzione e sapeva che quella sarebbe stata la massima attenzione dedicatale dal cane. Sapeva anche che gli unici momenti di distrazione che il cane si concedeva erano per mangiare e uscire a fare i bisogni, ma anche quelli iniziavano a diminuire di frequenza.
    Barbara fece un sorriso tirato ai due coniugi e abbozzò l’ennesimo tentativo di persuasione: «Ho discusso la vostra idea con l’ispettore Enzo Nervo, sapete che è lui il responsabile delle indagini sul rapimento di Sara e quindi era giusto che gliene parlassi.»
    Annuirono entrambi, erano tesi come corde di chitarra, Barbara se ne accorse da come muovevano rigidamente la testa ma continuò decisa: «Ebbene, Nervo mi ha ribadito che le indagini sono ferme, stanno ovviamente seguendo tutte le piste, vagliando ogni ipotesi ma non ci sono elementi nuovi su cui proseguire, nessuna traccia e dato che i rapitori non si sono mai fatti sentire mi ha dato il suo assenso all’appello che intendete fare.»
    Paola guardò il marito, poi parlò a nome di entrambi: «Gli hai specificato il contenuto, voglio dire, hai detto all’ispettore Nervo l’esatto contenuto del messaggio che registreremo questa mattina?»
    Barbara si strinse nelle spalle: «Non l’ha chiesto, comunque gli ho accennato qualcosa, cioè, ho detto che ripeterete a grandi linee il contenuto dei due appelli precedenti.»
    «Oh capito, hai mentito…» affermò Paola sospirando. Seguì qualche secondo di silenzio in cui gli sguardi di tutti s’incontrarono, poi Paola domandò: «…quindi non ci saranno problemi?»
    «Sicuramente l’ispettore Nervo non sospetta nulla, altrimenti tenterebbe di impedirmi la messa in onda del vostro messaggio, sapete, lui è del parere che bisogna andarci cauti, io invece credo che sia un vostro diritto…» Barbara si fece prendere dall’emozione, «…Insomma Sara è stata rapita trenta giorni fa, non avete ricevuto alcuna notizia, la polizia non sa che pesci pigliare e vi si chiede di portare pazienza? Al diavolo!»
    Paola e Luigi annuirono energicamente. La sera prima Barbara aveva provato un ultima volta a persuadere la coppia dal registrare un nuovo appello ai rapitori, lo aveva fatto non perché fosse contraria, anzi, ma per verificare se marito e moglie fossero davvero convinti, se erano determinati e, infatti, tutto lasciava supporre che lo fossero.
    Barbara si alzò: «Bene, inizio a sistemare l’attrezzatura.»
    Impiegò dieci minuti per montare il tre piedi, sistemare sopra la telecamera, collegare il portatile e posizionare le luci che puntavano verso di loro.
    Luigi e Paola restarono seduti sul divano del salotto in nervosa attesa, tenendosi la mano e seguendo in silenzio ogni suo movimento.
    Barbara li guardò attraverso la telecamera, scrutò nei loro sguardi. C’era un silenzio quasi fastidioso nella stanza. Nonostante fosse mattina, le nove, le nubi nere che si stavano raggruppando sopra di loro l’avevano obbligata ad accendere tutte le luci che ora illuminavano a giorno la sala e aggiunte ai faretti permettevano una ripresa più chiara.
    Trascorsero altri secondi di silenzio, nel frattempo Barbara aveva sistemato perfettamente la messa a fuoco (anche se era automatica aveva finto di farlo per dar tempo ai due coniugi di prepararsi) poi aveva premuto il tasto REC e PAUSA nel medesimo istante ponendo la telecamera digitale in Stand bay, infine aveva sollevato il busto raddrizzandosi. 
    «Allora quando volete.» Annunciò loro ponendosi dietro la telecamera digitale. Inquadrò Luigi intento a fissare un punto sul pavimento, poi Paola che puntava lo sguardo fermo e deciso dentro l’obbiettivo, tra i due Paola sembrava la più determinata. Infine, servendosi dello zoom, inquadrò marito e moglie a mezzo busto.
    «Non ce la faccio» sussurrò a denti stretti Luigi Parisi. Aveva uno sguardo assente. I capelli corti neri erano arruffati, la barba di tre giorni.
    Paola mise una mano sul ginocchio del marito continuando a fissare l’obbiettivo. «Non preoccuparti caro parlerò io.» Era una donna forte, combattiva e grazie alla sua tempra riusciva ancora a trattenere la rabbia che provava, che iniziava però a trapelare attraverso il leggero tremolio delle labbra.
    Era trascorso un mese da quando la loro unica figlia di sette anni era stata rapita in piena notte. Qualcuno si era intrufolato nella loro villa servendosi di una scala che aveva appoggiato alla finestra della camera di Sara e aveva portato via la piccola. E in tutto quel tempo avevano già fatto due appelli che erano stati trasmessi dai telegiornali nazionali, ma non erano valsi a nulla.
    Tutt’e due gli appelli erano stati filmati e divulgati dalla giornalista freelance Barbara Flanella.
    Lei era l’unica giornalista ammessa in casa Parisi. Lei era stata l’unica in grado di conquistarsi la fiducia dei coniugi.
    Barbara non aveva fatto niente di speciale per accaparrarsi l’esclusiva sulle interviste e sugli appelli (i soldi che riceveva per i servizi li donava in beneficenza) era semplicemente andata a trovare i coniugi Parisi senza telecamera, come una persona qualsiasi, come un parente. Sfruttando i suoi agganci da giornalista Barbara aveva tenuto informati Luigi e Paola Parisi su ogni novità.
    Durante la prima settimana seguita al rapimento i carabinieri avevano fermato due persone che bazzicavano per le strade del paese di Verbania. Due sospettati segnalati dalla stessa Barbara Flanella ma che si erano rivelati solo un tossicodipendente uno e uno sbandato l’altro, che non avevano nessuna attinenza con il rapimento.
    In entrambi gli arresti Barbara si era tenuta in constante contatto con la famiglia Parisi.
    Successivamente, quando ormai era chiaro a tutti che non vi erano piste da seguire, che le forze dell’ordine brancolavano nel buio e che si poteva solo attendere una telefonata da parte del rapitore, Barbara si era comunque presentata puntualmente a casa dei coniugi Parisi, andando a trovarli un giorno sì e l’altro pure. Si fermava da loro a volte per un’ora altre volte per due o tre, beveva il caffè, un the o una cioccolata calda assieme a Paola Parisi, cercando di confortarla e aiutarla in quel difficile momento. Delle volte Barbara arrivava a casa Parisi quando c’erano parenti in visita ma Paola la faceva accomodare come fosse una di famiglia. Barbara aveva notato subito il rapporto speciale che si era instaurato tra lei e Paola. Era un legame forte, come tra due sorelle. Avevano trascorso molte ore a parlare sedute attorno al tavolo della cucina, davanti a una tazza di caffè bollente.
    Adesso che avevano stretto un legame Barbara non era più la giornalista che andava ad intervistarli, era diventata una cara amica che andava a trovarli e portava loro un po’ di conforto.

    Luigi fece un debole cenno d’assenso e tornò a fissare il pavimento, la testa china, gli occhi socchiusi e stanchi.
    Barbara provò una profonda tristezza per loro, sapeva quanto stavano soffrendo e sperava tanto che Sara fosse ancora viva e che potesse fare ritorno a casa. Ma quando rifletteva onestamente su tutta la vicenda poteva trarre una sola conclusione e cioè che c’erano pochissime speranza di ritrovare Sara Parisi viva. L’investigatore Nervo era stato chiaro in proposito, aveva detto a Barbara che se il rapitore o i rapitori (questo era un altro punto oscuro nelle indagini) avessero voluto estorcere denaro alla famiglia Parisi si sarebbero fatti vivi chiedendo un riscatto. Mentre data la totale assenza di segnali da parte loro era purtroppo evidente che il rapimento aveva un altro fine, magari si trattava di un rapimento a sfondo sessuale, oppure faceva parte del traffico di organi, ma quasi certamente (perché di certo in questi casi c’era poco) non a scopo di estorsione.
    Barbara girò attorno alla telecamera ponendosi al centro dell’inquadratura: «Mi trovo a Verbania a casa Parisi, oggi…» terminò quello che sarebbe stato l’inizio del servizio e tornò dietro l’obbiettivo puntandolo sul viso di Paola, facendole un cenno per farle capire che poteva iniziare a parlare quando voleva.
    Paola fissò l’obbiettivo, fece un profondo respiro e iniziò a parlare alla persona che aveva rapito sua figlia: «Non so perché l’hai fatto. E francamente non me ne importa…» la voce le si spezzò ma dopo un attimo di pausa e un altro profondo respiro Paola proseguì con voce ferma e decisa, «…noi non siamo ricchi, quindi non puoi pretendere ingenti somme di denaro. Ma se sono i soldi che cerchi ci indebiteremo a vita pur di riavere la nostra bambina…» poi parlò con evidente sconforto, la voce lontana «…ma se fossero i soldi ad averti spinto a tanto credo che ci avresti già contattato…» altra pausa poi riprese: «…non abbiamo nemici che ci odiano a tal punto, quindi i motivi che ti hanno spinto a compiere un gesto simile sono altri. Ma una cosa voglio che ti sia ben chiara…» gli occhi le si riempirono di lacrime miste ad odio. Barbara strinse l’immagine su Paola Parisi facendole un primo piano «…qualsiasi siano i motivi che ti hanno spinto a rapire nostra figlia, devi ridarcela. Se ci riconsegnerai Sara, se non le farai del male, noi ti lasceremo stare, ma se solo le torcerai un capello…» le lacrime le rigarono le guance, la voce si fece più incerta ma Paola Parisi proseguì decisa: «…se farai del male alla mia bambina io ti cercherò, e stai pur certo che smuoverò la terra per trovarti e quando ti avrò trovato niente mi fermerà dall’infliggerti cento volete il dolore che stai facendo provare a me…» un improvviso cedimento la fece scoppiare a piangere, le immagini rimasero sul di lei, in primo piano, come concordato in precedenza e Paola Parisi concluse tra le lacrime: «…ti conviene ritornare sui tuoi passi, ridammi mia figlia e ti lascerò vivere, altrimenti l’ultima cosa che vedrai sarà questo viso.»
    Barbara sfumò in nero sugli occhi colmi di lacrime di Paola, poi mise in pausa e corse in lacrime ad abbracciarla.

 

 

3

 

 

LA situazione si stava complicando. Mi trovavo in ginocchio nel corridoio di un appartamento, con la pistola d’ordinanza puntata verso lo spiraglio di una porta socchiusa che si trovava a un metro da me. Ero indeciso se rotolare dentro la stanza e sparare nello stesso istante o se mirare attraverso la porta facendo un foro nel legno, sperando di farne uno anche alla testa di quel tizio.
    Al momento propendevo più per la seconda ipotesi. Anche se sembrava la più assurda e audace restava in ogni caso la più sicura, per me e per quel bambino. Per la madre del piccolo oramai non nutrivo più alcuna speranza. Dalla fessura della porta, che era larga appena venti centimetri, riuscivo a scorgere il corpo della donna steso in terra affianco al letto. Aveva la faccia rivolta nella mia direzione e gli occhi fissi che mi guardavano. Da sotto la pancia della donna si estendeva una pozza di sangue che andava allargandosi col passare dei minuti.
    L’aria nel corridoio era calda e umida o forse era normale ed ero io che percepivo quell’atmosfera soffocante a causa della tensione. Come a voler rispondere al quesito il mio corpo iniziò a sudare da ogni poro, in breve tempo la mia fronte s’imperlò di sudore.
    Mi decisi a parlare un’altra volta, usando un tono calmo, indulgente, sperando così di riuscire a calmare quel pazzo. «Cerca di ragionare. Facciamo così, ora tu metti giù la pistola, io faccio scivolare dentro la mia, così vedrai che non sono più armato, poi entro, mi siedo sul letto così possiamo parlare da buoni amici e mi puoi spiegare le tue ragioni, okay?»
    Deficiente! Mi urlai nella testa, avevo parlato bene fino alla fine e all’ultimo avevo rovinato tutto con quelle ultime parole: “Mi spiegherai le tue ragioni.”
    Coglione! Luca Randi sei un coglione! Mi dissi convinto del fatto che quelle parole fossero inappropriate da dire a un folle che teneva una pistola puntata contro la testa di un bambino e aveva sparato alla madre di quest’ultimo. E che per questo motivo, di ragioni non ne poteva avere, almeno secondo me.
    Diavolo! Non sono un negoziatore o uno strizzacervelli! Faccio parte del nucleo investigativo della polizia di Gallarate, sono un investigatore, un poliziotto e sono abituato a lavorare d’istinto. Ma per mia fortuna mi ero sbagliato, forse il tono gentile che avevo usato aveva funzionato.
    «Parli sul serio?» mi domandò il tizio da dentro la stanza, mentre stringeva a sé il bambino e gli puntava la pistola alla testa.
    «Ma certo, sono serissimo, l’unica cosa che voglio è che qualcun altro si faccia male.» Usai ancora un tono tranquillo, mentre guardavo con tristezza la madre del piccolo che giaceva morta sul pavimento e che di sicuro il figlio, in quel momento, stava fissando terrorizzato. Era una bella donna, sulla trentina, indossava una tuta grigio chiaro di pile, di quelle che comunemente una persona indossa in casa quando si stende sul divano a leggere un libro o a guardare la tv. Aveva i capelli nero corvino sparpagliati sul viso, gli occhi vitrei che mi fissavano immobili erano di un verde intenso. Cadendo doveva aver compiuto un giro su se stessa perché i pantaloni della tuta erano leggermente abbassati dal lato destro, come se fossero rimasti impigliati sotto il piede mentre roteava, facendo intravedere un lembo di slip di cotone bianco, la felpa della tuta era leggermente alzata lasciando scoperta parte di schiena. Avevo voglia di allungare un braccio per sistemare meglio l’abbigliamento della donna, per metterla in ordine se così si può dire, per lasciarle un po’ di dignità.
    Scostai leggermente la spalla dal muro di fronte alla porta per riuscire a vedere meglio dentro la stanza. Il tizio e il bambino non riuscivo a vederli direttamente perché si trovavano proprio dietro la porta a una distanza di due metri. Ne scorsi comunque le figure grazie a uno specchio ovale appeso all’anta dell’armadio. L’uomo teneva il bambino davanti a sé usandolo come scudo, gli stringeva una mano alla gola e spingeva la canna della pistola contro la sua tempia.
    Mi resi conto che qualsiasi cosa avessi fatto, per il bambino non c’erano molte speranze.
    Quel pazzo teneva il dito premuto sul grilletto. Se per sbaglio starnutiva o faceva una scoreggia, se per sbaglio qualcuno giù in strada strombazzava o se il vicino di casa si metteva a urlare, il cervello di quel povero bambino si sarebbe spiattellato sulla parete. Il bastardo era teso, i muscoli del collo rigidi, il dito sul grilletto.
    Le due ipotesi che avevo preventivato andarono a farsi benedire. L’entrata a sorpresa era da escludere, d’istinto quel pazzo avrebbe sparato al bambino e con tutta probabilità subito dopo avrebbe provato a sparare contro di me, ma a quel punto l’avrei anticipato sparando per primo, comunque sempre troppo tardi per il bambino.
    La seconda ipotesi che mi era sembrata la migliore faceva acqua in un punto.
    Se fossi riuscito, attraverso la porta, a centrare la testa di quel tizio, sicuramente lui avrebbe premuto istintivamente il dito sul grilletto.
    Attraverso lo specchio vidi l’uomo guardare in giro per la stanza, forse stava progettando un modo per scappare. Scordatelo!
Feci altrettanto guardandomi attorno, cercando di capire qualcosa di tutta quella situazione. Il corridoio era arredato con cura. Si allungava sino alla porta di uscita. Le parerti erano tappezzate con carta da parati beige chiaro su cui vi erano riprodotti rose bianche, rosa, blu, gialle e rosse. Vi erano due porte oltre quella a cui mi trovavo di fronte. Entrambe erano su lato sinistro rispetto all’entrata. Dalla prima porta si accedeva in cucina, l’avevo intravista mentre attraversavo il corridoio, aveva i mobili di legno scuro e una cassapanca. La seconda porta conduceva in un ampio soggiorno dove avevo scorto un mobile a parete in legno di ciliegio con una vetrinetta, la televisione incassata e soprammobili. Un divano ad angolo con penisola a fantasia verde e un piccolo tavolo quadrato con quattro sedie. La terza porta, la mia, conduceva in camera da letto, alle mie spalle vi era la porta del bagno. Nel corridoio, vicino l’entrata c’era una specchiera elegante e un appendiabiti satinato su cui erano appesi un cappotto da donna nero e un giubbotto da bambino blu con cappuccio, sciarpe, guanti e cappelli di lana. C’era anche un mobiletto in legno su cui era sistemato un telefono. Il mobiletto si trovava tra la porta della cucina e quella del soggiorno, era troppo distante perché potessi raggiungerlo allungando un braccio. Per afferrare il telefono dovevo lasciare la mia postazione e non avevo nessunissima intenzione di concedere il benché minimo vantaggio a quel figlio di puttana.
    Avrei dovuto chiamare i miei colleghi. Questa frase l’avevo ripetuta almeno venti volte da quando avevo messo piede in quell’appartamento.
    Avrei dovuto chiamare i miei colleghi. Ventuno.
    Serrai le dita attorno al calcio della pistola come a volerla far fondere con la mia mano così da farla diventare un tutt’uno con la mia mente e, quando ve ne fosse stata l’occasione, indirizzare un unico proiettile nel punto esatto in cui puntavano i miei occhi in quel momento: sopra l’attaccatura del naso di quel bastardo!
    Ero pronto a fare qualcosa, ero pronto a scattare… ero pronto.
    Sono abituato a questo genere di tensione, faccio il poliziotto e anche se non mi trovo tutti i giorni in una situazione del genere, mi addestro spesso con Manuel, il mio collega. Però un conto è l’addestramento, altra cosa è la realtà.
    Avrei dovuto chiamare i miei colleghi. Ventidue.
    Trenta minuti prima, verso le 14, mi trovavo sulla statale che da Boladello porta a Cassano Magnano. Appena entrato in Cassano avevo parcheggiato la mia alfa 147 GTA nera sul ciglio della strada ed ero sceso avvicinandomi a un distributore automatico di sigarette per comprare un pacchetto.
    Avevo selezionato la marca che fumo quando d’improvviso sentii uno sparo giungere dal palazzo sopra il tabaccaio. D’istinto tolsi la pistola dalla fondina che tengo appesa a tracolla sotto il giubbotto di pelle nero e mi precipitai su per le scale.
    Cavolo! Sono un poliziotto, un ottimo poliziotto, e la prima cosa che mi viene in mente quando sento uno sparo è correre a vedere cosa succede. Be’ forse a volte sono un po’ troppo impulsivo perché se avessi ragionato per un solo secondo avrei chiamato rinforzi prima di salire. Ma mentre salivo a due a due i gradini e mentre mi ripetevo che dovevo chiamare rinforzi (e in quel momento ero arrivato a due con la conta), mi dicevo anche che avrei sempre potuto tornare indietro per farlo (perché inconsciamente sapevo di aver lasciato il cellulare in macchina).
    Ma mi sbagliavo.
    Arrivato di corsa al secondo piano mi accorsi che la porta di un appartamento era socchiusa, entrai in silenzio e dopo aver ispezionato la cucina e il soggiorno avanzai guardingo lungo il corridoio, lungo il roseto, tenendo le braccia tese davanti a me e la pistola spianata pronta a sparate.
    Non sono il tipo che entra e si mette a gridare: «polizia!» no di certo, queste frasi che equivalgono a: “ehi tizio sono qui, sparami,” le lascio ad altri. Ma non ditelo a nessuno però!
    Io entro in silenzio, valuto i pericoli per me e per gli altri, tralasciando il pazzo in questione che è l’ultima persona di cui mi preoccupo e la prima a cui vorrei fare male, e se posso agisco, e se non posso agisco ugualmente.
    Avrei dovuto chiamare i miei colleghi. Ventitré.
    «Dai, se posi la pistola, io farò lo stesso, okay?» Ripetei al pazzo per prendere tempo e decidere come agire.
    «Non mi fido.»
    Merda!
    Improvvisai: «Come ti chiami?»
    Silenzio.
    «Franco.»
    «Bene Franco, io mi chiamo Luca, Luca Randi.»
    «Sei uno sbirro?»
    «Nooo.»
    «Non prendermi per il culo!» gridò. «Se non sei uno sbirro cosa ci fai con una pistola?»
    Abbozzai una scusa, era l’unica cosa che mi venisse in mente al momento: «Sono un investigatore privato, giro armato per lavoro, ho sentito lo sparo e sono corso a vedere cosa stesse succedendo, non voglio che qualcun altro si faccia del male.»
    Silenzio.
    «È la verità Franco, non ho intenzioni di usare la pistola. Diamine, in vita mia non ho mai sparato a nessuno. Credimi. Il mio lavoro consiste nel pedinare e fotografare mariti e mogli adulteri. Non voglio farti del male.»
    «E io dovrei crederti?»
    «Senti Franco perché mai dovrei mentirti?»
    Mentre poco prima stavo percorrendo il corridoio, quando ero appena entrato nell’appartamento, questo pazzo mi era sbucato fuori all’improvviso e prima che potessi sparargli era rientrato nella stanza trascinando con sé il bambino che sì e no avrà avuto dodici anni.
    Il pazzo non rispose alle mie parole, brutto segno!
    Se avessi chiamato rinforzi a quest’ora ci sarebbero stati almeno dieci poliziotti nel corridoio con me, Manuel sarebbe arrivato per primo. In questi casi si chiamano i tiratori scelti, i cecchini e si fanno posizionare in punti strategici. 
    In ogni modo c’ero solo io sul posto senza possibilità alcuna di chiamare rinforzi. Il caso volle che mi fossi dimenticato il cellulare in macchina. Mentre salivo le scale ero convinto di averlo in tasca e invece quando tastai per cercarlo non lo trovai e un’immagine prese forma nella mia mente: il cellulare agganciato all’apposito supporto vivavoce da auto.
    «Dai Franco lasciami entrare, preferisco parlare alla gente guardandola negli occhi.»
    Dovevo fare qualcosa. Subito! Non potevo però mirare alla testa di quel tizio, non potevo sparare a casaccio, troppo rischioso!
    Ero dietro la porta e mi trovavo in una situazione di stallo.
    Dallo specchio vidi il pazzo guardare verso la finestra, poi lo vidi voltarsi verso la porta. Era nervoso, lo capii da come si muoveva, dagli scatti che faceva con la testa quando si voltava e dallo sguardo, folle.
    Abbassai gli occhi verso il cadavere della donna e con enorme stupore la vidi muovere le palpebre.
    Diamine era ancora viva!
    Aveva spostato leggermente gli occhi e si era guardata in giro, però non si muoveva, restava immobile. Sentii l’adrenalina schizzarmi nelle vene. Il cuore prese a martellarmi nel petto.
    Provai a mettermi nei panni della donna. Cercai di capire a cosa stesse pensando, posto che avesse la mente lucida. Avevo bisogno di capire cosa avrebbe fatto. D’improvviso era diventata l’incognita numero uno. Se si fosse mossa, se il tizio si fosse accorto che era ancora viva le cose sarebbero cambiate rapidamente. Forse le avrebbe sparato a sangue freddo alla schiena. E mentre il corpo della donna sobbalzava sotto i colpi d’arma da fuoco io avrei potuto spalancare la porta e approfittare del momento di distrazione dell’uomo per piazzargli una pallottola in fronte. Ma speravo tanto che la donna non si muovesse, così forse avrei potuto salvarne due di vite.
    Ripeto, la vita di quel bastardo non era in discussione, valeva meno della vita di una formica.
    La donna restava immobile, gli occhi puntati su di me. Erano occhi belli, che in altre occasioni sarebbero stati in grado di regalare dolcezza, ma che in quel momento erano colmi di lacrime e sgranati dal terrore. La guardai e mi portai l’indice alle labbra sillabandole: «Non muoverti.»
    Lei sbatté una volta le palpebre e, sebbene poteva essere un riflesso istintivo, lo presi come un sì. Guardai lo specchio e notai il tizio abbassare la pistola dalla tempia del bambino e allungare il collo verso la finestra dietro le sue spalle, trascinando con sé il ragazzino, evidentemente per guardare fuori.
    Era giunto il momento, dovevo entrare in azione.