1

 

Il finestrino nero della limousine scese silenzioso, dall’interno l’uomo scrutò la notte romana in cerca di un segno, di un movimento furtivo. Lo sguardo vigile si bloccò in un punto delle mura Vaticane e per un attimo pensò di averli visti, ma l’immobilità che seguì gli fece capire di essersi sbagliato. Erano professionisti, i migliori sul mercato e se valevano la metà dei soldi che erano costati all’organizzazione non li avrebbe mai sorpresi a violare il perimetro del Vaticano.
    «Signore, sarebbe meglio se ci allontanassimo, quest’auto non passa inosservata...» fece presente l’autista. Poi, timidamente, aggiunse, nel tentativo di giustificare il fatto di aver parlato senza che gli fosse stato chiesto di farlo: «Nonostante l’ora tarda e il poco traffico, è una limousine diplomatica...».
    Carl Minner strinse gli occhi e si concentrò su un cespuglio che gli sembrava si fosse mosso... no, si era sbagliato. Si voltò verso l’autista: «Da quanto lavori per me?»
    «Sei anni, signore» rispose a disagio l’uomo, guardandolo dallo specchietto retrovisore.
    «E vuoi continuare a farlo?»
    L’autista strinse le dita sul volante e, imbarazzato, tornò a guardare davanti a sé. «Certo, signore».
    «Allora pensa a guidare, al resto ci penso io» tagliò corto Minner tornando a fissare le mura Vaticane.
    Dopo qualche minuto di noiosa attesa, Minner sospirò rassegnato e disse all’autista di partire. Trenta minuti più tardi Carl Minner era nel suo appartamento a Roma, si toglieva la giacca, allentava il nodo alla cravatta e si versava un doppio whiskey lasciandosi sprofondare in poltrona. Rimase così, seduto al buio per venti minuti buoni. Poi il suo telefono iniziò a vibrare. Minner lo afferrò. Premette il tasto verde e si avvicinò l’apparecchio all’orecchio senza tuttavia dire una parola. All’altro capo una voce fredda comunicò: «Ce l’abbiamo» e riagganciò.
    Minner rimase con il telefono attaccato all’orecchio a fissare il nulla, col bicchiere di whiskey nell’altra mano. Una sensazione di fatalità si fece largo in lui. E così, dopo un anno di contatti, di persone corrotte, dopo tanto lavoro, finalmente c’erano riusciti. Il ventisei agosto duemiladieci sarebbe entrato nella storia come il giorno in cui la Sacra Sindone era stata rubata.

 

2

 

Quella mattina d’inizio settembre, Isabella Giudice prese posto nella fila al centro dell’aula di teologia all’università Cristiana. Aveva deciso bene di non pettinarsi e i corti capelli rossi erano un confuso groviglio di ciuffi. Sopra la gonna blu indossava una camicia bianca. Gli altri studenti stavano rapidamente occupando i posti e non vedendo arrivare Jordi, Isi posò la sacca sul sedile accanto, occupandolo per l’amico. Poi si acquattò quanto più le riusciva, nel tentativo di nascondersi alla vista del docente che aveva appena fatto il suo ingresso.
    Il diverbio avuto da Isabella qualche giorno prima con Romoncelli, sulla parabola dell’albero di fichi, era passato di bocca in bocca, diventando quasi una leggenda.
    Isabella Giudice aveva ventidue anni e il cognome che portava era quasi un’istituzione all’università Cristiana. Il compianto Paolo Giudice, padre di Isabella, era stato studente modello, insegnante di letteratura e poi rettore dell’università.
    Isi adorava studiare e frequentava l’università per coronare il sogno del padre che la voleva laureata. Ma la scomparsa del fratello maggiore prima e dei suoi genitori poi aveva reso quel frutto acerbo un bocciolo mai schiuso.
    Aveva sedici anni quando il fratello, Davide Giudice, era scomparso durante la traversata in solitaria dell’oceano atlantico e da allora lei aveva smesso di sorridere. Due anni dopo Paolo Giudice e la moglie Anna erano morti in un incidente d’auto.
    Si era ritrovata a fine liceo improvvisamente sola al mondo ed erede di una fortuna. Suo padre aveva dato disposizione che ad amministrare l’intero patrimonio fosse Adrian Bergh, amico di famiglia e proprietario di uno studio legale in Svizzera. E le disposizioni erano chiare: Isabella avrebbe ereditato il patrimonio di famiglia dopo essersi laureata all’università Cristiana di Milano. O al compimento del trentesimo compleanno.
    Il corso che preferiva era quello di lingue antiche, e trovava che tenere la mente occupata con gli studi la distraeva da pensieri e ricordi che le provocavano ancora fitte di dolore allo stomaco.
    Immersa nel verde della periferia sud di Milano, l’università Cristiana è un imponente edificio di mattoni grigi, costruito sul finire del diciassettesimo secolo.
    È tra le più antiche e rinomate facoltà. Da qui sono uscite menti brillanti. Presidenti del Consiglio e della Repubblica. Tre papi vi avevano studiato nel corso della sua rispettosa storia. Diversi avvocati ne erano usciti, e molti dottori. Ogni anno, i primi di settembre, il Papa teneva un discorso nell’antica aula porpora.
    C’erano alloggi per gli studenti e il grande parco che circondava la facoltà era il luogo ideale per studiare nei mesi belli, all’ombra di una quercia.
    Quella mattina gli studenti affollavano i viali d’accesso alla facoltà chiacchierando e passeggiando sotto il tepore del sole. C’era chi preferiva una salutare corsa mattutina nel parco, o chi studiava appollaiato su qualche panchina. L’intera comunità di studenti superava di poco i tremila iscritti. Tra i corsi della facoltà, il più ambito era quello di teologia. Frequentare il corso significava avere quaranta crediti in più ed era risaputo che le menti più illustri erano tutte passate da quel corso.
    Jordi arrivò poco dopo di corsa, doveva essersi svegliato tardi. Quando s’infilò goffamente nella fila dov’era seduta Isabella, dei libri gli caddero dalle mani e finirono a terra.
    Vedendo la scena Isabella scattò in piedi e andò ad aiutarlo.
    Si chinò e raccolse qualche libro.
    «Grazie Isi» disse Jordi a bassa voce e rosso in viso.
    «Ciao. Svegliato tardi?»
    «Non ho sentito la sveglia».
    Isi annuì rialzandosi e tornò a sedersi accompagnata dall’amico. Tolse la sacca per liberare il posto a Jordi dopodiché volse lo sguardo verso la cattedra.
    «Quando impererò a tenere la bocca chiusa sarà troppo tardi» gli confidò.
    Jordi sorrise compiaciuto. «Io ti avevo avvertita di startene buona».
    «Sì, lo so» rispose rammaricata per non avergli dato ascolto.
    Il docente sistemò dei fogli in una cartelletta e si sedette osservando in silenzio gli studenti. Aveva cinquant’anni. Era un uomo basso e stempiato, con una pancia prominente e il doppio mento.
    Isabella si acquattò quanto più le riusciva, cercando di nascondersi alla vista da falco di Romoncelli. L’ultima cosa che voleva era un nuovo scontro verbale e la conseguente attenzione di tutti. Per quanto le teste delle persone riuscissero a celarla alla vista di Romoncelli, il rosso dei suoi capelli doveva essere individuabile come un faro in cima alla scogliera.
    In quel momento due uomini fecero il loro ingresso nell’aula. Uno rimase in piedi vicino all’entrata: indossava un elegante abito grigio chiaro. Poteva avere una quarantina d’anni. Isabella lo guardò per un istante, ma non lo conosceva; quindi spostò l’attenzione sull’altro uomo appena entrato. Questi vestiva di nero, o almeno così le sembrava perché la sua attenzione era tutta concentrata sul viso. L’uomo si era spostato verso la finestra che dava sul parco. Isabella riusciva a vederlo solo di profilo, ma c’era qualcosa di malinconico nello sguardo di quell’uomo che la rapiva.
    Romoncelli guardò verso l’uomo in grigio, annuì e si alzò. Girò attorno alla cattedra e si mise davanti ai ragazzi, osservandoli.
    Istintivamente Isabella presagì qualcosa; d’altronde non c’erano state ancora ripercussioni riguardo la discussione avuta solo qualche giorno prima. Era quindi logico presumere che fosse giunta l’ora della resa dei conti, anche se non riusciva a capire la presenza dei due uomini. Quello vestito di nero osservava il panorama a braccia conserte senza preoccuparsi dei presenti.
    «Signorina Giudice...» attaccò Romoncelli.
    Ecco ci siamo, pensò Isabella sistemandosi meglio sulla sedia. Il cuore accelerò i battiti. Ma quand’è che avrebbe imparato a starsene un po’ zitta? Si rimproverò nuovamente schiarendosi la voce. «Sì?»
    Jordi la toccò con un ginocchio, in un chiaro segno di ammonimento ad andarci piano. Lei gli restituì il tocco con maggior forza, come a dire: “Sì, lo so”.
    L’uomo in grigio la stava osservando serio, mentre quello vestito di nero preferiva il panorama oltre il vetro.
    Romoncelli guardò verso l’uomo in grigio e questi annuì, quindi il professore tornò a rivolgersi verso Isabella. «Signorina Giudice, come da me richiesto qualche giorno fa, ha riletto la parabola dell’albero di fichi?»
    «Non mi piace» sussurrò Jordi.
    «Neanche a me» convenne lei, poi rispose. «Sì, professore, l’ho fatto». Con tono pacato provò a chiarire che secondo lei sull’albero non c’erano frutti e di conseguenza non poteva offrirli come doni, cercando di evitare l’ipotesi che la maledizione di Gesù fosse dovuta al fatto che non lo aveva sfamato.
    «Non mi sembra che la rilettura della parabola sia servita molto. Vede, signorina Giudice, Gesù ha usato l’albero come un simbolo; lei non deve vedere l’albero di fichi in quanto tale, ma ciò che Gesù vuole indicare».
    Tutto si stava ripetendo, esattamente come la settimana precedente, solo che questa volta c’erano i due misteriosi uomini come pubblico aggiunto e a Isabella la cosa proprio non piaceva. In quel momento avrebbe desiderato nascondere le proprie idee.
    Non permettere mai a nessuno di zittire il tuo pensiero. Soleva ripeterle suo padre come mantra d’incoraggiamento.
   Anche quando le mie idee mettono a rischio la laurea, padre? Pensò torturando un angolo della gonna.
    «Forse non riesco a intravvedere la simbologia che lei mi fa notare. Però la mia considerazione potrebbe essere il frutto della visione parziale e sommaria della parabola» rispose sperando che questo mettesse fine a tutto.
    Gli studenti ascoltavano in silenzio il dibattito.
    Romoncelli annuì soddisfatto dalla risposta ma precisò comunque. «Gesù risponde a Pietro: “abbiate fede in Dio... qualsiasi cosa chiedete nella preghiera abbiate fede di ottenerlo”. Gesù voleva vedere la reazione dei discepoli per poi spiegar loro di non scoraggiarsi. Lui aveva fame e vedendo che l’albero non aveva fichi lo ha maledetto; tutto questo simboleggia il credente che fa una richiesta a Dio e non avendo immediata risposta lo maledice».
    Isabella si morse il labbro per non ribadire che lei continuava a vederci un albero morto per mano di Gesù. Annuì. «Cercherò di leggere con più attenzione, professore».
    «Diplomatica» si complimentò a bassa voce Jordi.
    «Almeno ci provo».
    Isabella notò che l’uomo in grigio seguitava a guardarla serio mentre quello vestito di nero continuava a guardare fuori dalla finestra.
    Romoncelli annuì. «Le raccomando di essere di larghe vedute. Ora, se volete prestarmi la vostra attenzione, sono lieto di presentarvi il nuovo rettore, il signor Ignazio Deviti».
    Ignazio Deviti, l’uomo in grigio, si avvicinò alla cattedra e strinse la mano al professor Romoncelli, poi si rivolse ai ragazzi. «Salve a tutti. Come saprete il precedente rettore è andato in pensione e ho avuto il privilegio di sostituirlo; lo so cosa state pensando, che sono troppo giovane... difatti ho solo trentasei anni, e sembro più un insegnante che un rettore, ma se i membri del consiglio hanno scelto me è perché confidano che possa svolgere al meglio questo mestiere».
    Tutti ascoltavano in silenzio.
    «Ci saranno diverse novità a partire da quest’anno: a breve sarà distribuita una circolare in ogni aula e affisso un messaggio in bacheca nella sala centrale. Posso anticiparvi che da quest’anno la mensa è cambiata, il menù avrà un’ampia scelta e a mio parere sarà più buono».
    Vi furono cenni d’assenso a questa notizia e Deviti sorrise compiaciuto. «È mia intenzione favorire l’attività sportiva perché credo nell’efficacia dell’esercizio fisico. Proporrò al consiglio di attribuire dei crediti a chi lo pratica».
    Applausi sinceri seguirono questa novità.
    «Però devo anche avvisarvi che non sarà più tollerato alcun ritardo ingiustificato: vi ricordo che questa è un’università con regole proprie e vi richiamo quindi al rispetto delle stesse, come un abbigliamento più conforme agli standard dell’università».
    Il rettore Deviti pescò un foglietto dal taschino e lo aprì. «E ora, se permettete, ho qui i nomi dei cinque studenti che quest’anno avranno l’onore di scambiare qualche parola con il Papa, durante la sua visita. Sono: Patrizia Giordano». Una vocina acuta manifestò la sua felicità da una delle prime file: apparteneva a una ragazza dai voluminosi capelli biondi. Il rettore proseguì la lettura. «Federico Mastronna». Lui sedeva nella parte destra dell’aula; molti suoi amici gli strinsero la mano felici per lui e, molto probabilmente, anche un po’ invidiosi.
    «Enzo Bubini». Il designato si alzò e ringraziò il rettore con un leggero inchino.
    «Sonia Belvedere». Nessuna voce espresse il ringraziamento, perché non era presente.
    «E Isabella Giudice».
    L’aula si ammutolì. Tutti rimasero sorpresi nel sentire il nome di Isabella; lei stessa inarcò le sopracciglia stupita e subito preciso: «Mi scusi, rettore, credo ci sia uno sbaglio».
    Deviti piegò con cura il foglietto e se lo infilò nella tasca interna della giacca. «Nessun errore, signorina Giudice, lei è stata scelta per parlare col Pontefice».
    Isabella si rabbuiò. «Perché proprio io?»
    «Perché così è stato deciso».
    «Con tutto il rispetto, rettore, vorrei rifiutare».
    «Lei non può rifiutare, perché il consiglio ha approvato il suo nome. Dunque sosterrà nell’aula porpora la discussione col Papa, sperando che non vada oltre le righe. In questo caso sarò costretto a prendere provvedimenti.».
    «Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava» asserì preoccupato Jordi.
    Isabella non sapeva cosa dire, e qualcosa, forse un movimento dell’uomo vestito di nero, attirò la sua attenzione. Il rettore seguì la direzione del suo sguardo verso la finestra, poi tornò a guardarla confuso. «C’è forse qualche problema, signorina Giudice?»
    «Non rispondere!» l’avvertì sottovoce Jordi.
    Ma Isabella invece rispose. «Nessuno, rettore, solo mi chiedevo chi fosse l’uomo entrato insieme a lei».
    Tra gli studenti si diffuse immediatamente un vociare concitato. Il rettore corrugò la fronte e tornò a guardare verso la finestra, dove l’uomo vestito di nero continuava imperterrito a fissare il panorama. Ma era vestito di nero? Isabella non riusciva più a capirlo, non era in grado di mettere a fuoco i suoi vestiti: ogni volta che guardava in quella direzione, il suo sguardo era catturato dal volto dello sconosciuto.
    «Ma che cosa diavolo stai dicendo?» le domandò di fretta e con evidente preoccupazione Jordi. Isabella non capì le parole dell’amico, o meglio le comprese, ma le parvero strane. Il vociare tra gli alunni si propagò rapidamente.
    «Può ripetere?» le domandò il rettore, anch’egli confuso.
    Isabella si sentì a disagio; guardò l’uomo vestito di nero e vide che continuava imperterrito a scrutare fuori dalla finestra. Però aveva qualcosa di strano: ora che ci faceva caso, anche se non capiva cosa ci fosse che non andava in lui.
    Isabella si voltò verso Jordi. «Dimmi che lo vedi anche tu!»
    L’amico la guardò sempre più confuso. «Ma chi?»
    Il cuore di Isabella impazzì. «L’uomo vestito di nero, lo vedi?»
    «Io non vedo nessuno, Isi».
    «Signorina Giudice, stiamo aspettando» la informò il rettore. Romoncelli era confuso come tutti.
    Quando si voltò, con sorpresa Isabella notò che l’uomo vestito di nero era scomparso... non era uscito dall’aula, se ne sarebbe accorta, era semplicemente svanito nel nulla.
    Un groviglio nodoso si formò nello stomaco e il cuore accelerò i battiti. Isabella deglutì e disse al rettore che avrebbe parlato al Pontefice, chiudendo lì la conversazione.
    «Questa poi me la spieghi» bisbigliò Jordi.
    Una volta usciti dall’aula, terminata la lezione, Isabella e Jordi si avviarono lungo il corridoio est che portava all’entrata della facoltà. «Ti dico che sono sicurissima di aver visto un tizio vestito di nero entrare in aula assieme al rettore» ripeté per la seconda volta Isabella: proprio non le riusciva a far capire il concetto al suo amico. «E io ti ridico che non ho visto nessuno».
    La massa di studenti si muoveva con loro verso l’uscita.
    Una donna si parò davanti a Isabella, bloccandole la strada. «Isabella Giudice?» le domandò. Indossava un tailleur grigio chiaro e aveva i capelli castani raccolti in una coda. Sul naso portava un paio di occhiali dalle lenti rettangolari e dalla montatura in oro.
    «Sì, sono io».
    «Oh, bene. Salve, sono Federica Larovere, la segretaria del rettore Deviti: il rettore gradirebbe vederla nel suo ufficio».
    Ma che giornata fantastica! «Quando?»
    «Diciamo dieci minuti fa?» rispose secca la segretaria, poi fece un rapido cenno e si dileguò tra la folla.
    Jordi guardò l’amica e con indice e medio della mano destra disegnò una croce in aria, profetizzando sventure in arrivo.
    Isabella lo ringraziò sarcasticamente per l’incoraggiamento mostrandogli la lingua e si avviò controvoglia verso l’ufficio del rettore.

 

3

 

Il Moby bar aveva la fortuna di affacciarsi sulla strada che da Gallarate porta a Varese, via Varese appunto, ed era un bar molto frequentato durante tutta la giornata.
    L’arredamento del locale era in legno scuro. I piccoli tavolini quadrati davano un che di personale e intimo all’atmosfera.
    Forse non era il luogo ideale per passare inosservati, ma in una città come Gallarate la cosa poteva anche riuscire bene. E a una persona che da due anni abitava da quelle parti,rimanere anonimo era riuscito benissimo. Marco Presti si era stabilito a Gallarate e aveva comprato una villa che si trovava all’incrocio nei pressi del Moby bar.
    Aveva trentasei anni e non amava parlare troppo del suo passato. Quando era costretto a farlo, quello che diceva non corrispondeva al vero.
    Marco spostò l’attenzione dal giornale che stava leggendo alla ragazza dietro il bancone, Laura Giaco. Lei aveva trent’anni e lavorava lì da sempre. Lui l’aveva conosciuto dopo il trasferimento a Gallarate. L’iniziale amicizia si era trasformata nel tempo in qualcosa di più anche se al momento attuale non era ben definibile.
    Lei era impegnata a preparare cappuccini e caffè, così che Marco ebbe il modo di osservarla con attenzione. Laura aveva lunghi capelli castani con riflessi mogano. Occhi blu e un bel corpo slanciato. Ma più di tutto a catturare l’attenzione su di lei era il sorriso. Un’arma vera e propria che sapeva usare con maestria. Quando sorrideva, lo faceva con tutto il viso. Era una visione paralizzante che annientava la volontà altrui. Era inutile nascondere il fatto che la maggior parte degli avventori del bar fosse di sesso maschile, come il motivo per il quale tutti ronzavano attorno al bancone fosse Laura.
    Lui la stava guardando, mentre era intenta a far scivolare la schiuma nella tazza del cappuccino. Laura sollevò la testa e incontrò lo sguardo di Marco. Gli sorrise come era solita fare mostrando la lingua, poi tornò alla sua attività e alle chiacchiere con il cliente. Il bancone sembrava essere stato preso d’assalto da un’orda di uomini in transito da quelle parti. Lei aveva il suo bel da fare nel prestare attenzione ai clienti, perché era il perno attorno al quale girava tutto là dentro. Tuttavia trovava spesso il tempo per farsi notare da Marco, come in questo momento: sorriso e lingua. Lui alzò gli occhi al cielo e continuò a leggere il giornale. Non poteva negare che il cuore aveva accelerato i battiti quando i loro sguardi si erano incrociati. Un sospiro e un velo di tristezza lo attraversò, perché provava per Laura un sentimento sincero. Però la sua vita era troppo complicata e instabile per concedersi il lusso di certe passioni.
    Per distrarre la mente guardò fuori dalla vetrata. Per un attimo osservò il proprio riflesso nel vetro. Aveva corti capelli castani e indossava jeans chiari e una camicia azzurra con le maniche arrotolate ai gomiti.    
    Quella mattina di settembre il traffico in via Varese era come al solito movimentato.
    Il dolce profumo di lillà e cannella precedette il suo arrivo. Marco si voltò a guardarla e il cuore accelerò i battiti per l’emozione. Laura si chinò, posando sul tavolo il cappuccino accompagnato da croissant alla nutella, e gli chiese se avesse finito di leggere il giornale perché Giovanni stava insistendo per averlo.
    Marco guardò la gazzetta dello sport, sollevò gli occhi e li posò con piacere prima sul generoso decolleté di Laura, e successivamente sugli splendidi occhi blu. Lei sfoggiò il sorriso ammaliatore, inclinando la testa di lato. Marco lo chiuse piegandolo in quattro e glielo porse.
    «Dallo pure a lui, io ho già letto quello che dovevo».
    Laura lo prese ringraziandolo e fece per andarsene, poi ci ripensò e tornò indietro. «Più tardi dovrai raccontarmi la storia di Carla e non fare finta di nulla, chiaro?»
    Marco corrugò la fronte cercando di sembrare sinceramente confuso. «Non so di cosa stai parlando».
    Laura si sfilò uno straccio dal retro dei jeans e lo frustò alla spalla. «Balle! Carla mi ha detto che hai azzeccato il sesso del suo bambino e...»
    «Solo fortuna, è stato solo un colpo di fortuna».
    «Mi vedi?» domandò lei puntellando le braccia ai fianchi e battendo un piede sul pavimento, con finto nervosismo. La vedeva eccome, era uno schianto! E fu tentato di darle questa risposta. Scherzare con Laura gli riusciva naturale.
    «Certo che ti vedo, perché?»             
    «Allora dimmi, ti sembro forse una stupida?»
    Marco scosse il capo e sorrise.
    Laura si sedette un momento al tavolo con lui. «Bene. Allora, ti sarei grata se non mi trattassi come tale». Non c’era risentimento in quelle parole, solo sincerità.
    «E quindi?» finse di non capire lui.
    «E quindi sai che, in realtà, quello di cui voglio parlare riguarda il marito di Carla, Federico».
    Marco si perse negli occhi blu della ragazza. Proprio non se la sentiva di raccontarle frottole e, se lei era giunta a parlargli di Federico, significava che ne sapeva abbastanza nel caso le avesse mentito. Era consapevole che Laura non avrebbe insistito più di tanto, se avesse affermato che non conosceva di cosa stesse parlando. In questo caso probabilmente lei avrebbe chiuso la discussione e se ne sarebbe andata. Però qualcosa si sarebbe rotto per sempre tra loro: quella fiducia che giorno dopo giorno avevano consolidato. Era una sorta di malizioso legame quello che li univa e che si sarebbe spezzato. Però non era questa la sua volontà, quindi si limitò a un’alzata di spalle, buttando lì: «Altro colpo di fortuna?» Lei sorrise, con quel sorriso sincero che gli faceva rammollire le gambe e arroventare il petto. «Ah, stronzate! Adesso vado in cucina. Quando torno mi prendo cinque minuti e mi spiattelli tutto, chiaro?»
    «Signorsì, signora!» scherzò lui. Lei lo salutò e gli accarezzò la mano prima di andare via. Un gesto affettuoso che spesso si scambiavano e che Laura riservava solo per lui. Erano brevi contatti che sembravano significativi preliminari di avvicinamento. E mentre la vedeva allontanarsi, cercò in tutta fretta una scusa plausibile per giustificare il consiglio dato a Federico di fare un controllo al collo. L’uomo si era recato da uno specialista per una visita e in fibroscopia gli erano stati trovati dei polipi alle corde vocali. Minuscoli, a detta dello specialista, ed era stata una fortuna averli trovati così presto. Federico era stato operato risolvendo il problema sul nascere.
    «Posso disturbarla un momento?» La voce sconosciuta di un uomo lo strappò dai suoi pensieri.
    Marco distolse l’attenzione dal fondoschiena di Laura e si voltò. Era un uomo della sua età, più o meno, aveva corti capelli biondi, vestiva con pantaloni eleganti e camicia azzurra, ma senza giacca. L’istinto portò Marco a guardarsi attorno alla ricerca di potenziali pericoli. Non gli piaceva la sensazione di disagio che provava. Oltre le vetrate del locale vide parcheggiata una lunga Mercedes a limousine con i vetri oscurati.
    «Sto andando via, mi dispiace» disse Marco, accennando ad alzarsi. Mi hanno trovato! Ne sono certo, maledizione! rifletté.
    «Sono sicuro che può rimandare gli impegni» replicò l’uomo.
    Marco lo studiò. Non lo conosceva, non aveva mai lavorato per lui. Eppure quel tizio sembrava sapere chi fosse.
    «Credo mi abbia scambiato per un’altra persona» insistette sulla difensiva.
    «Non credo proprio». L’uomo si sedette presentandosi. «Piacere, Carl Minner» gli tese la mano.
    Marco non gliela strinse. «Le ripeto, sto andando via».
    «Suvvia, non sia così scortese. Le ruberò solo pochi minuti e se non sarà interessato a quello che le dirò, sarà liberissimo di andarsene».
    «Non sono interessato» rispose secco.
    «Non mi ha nemmeno fatto iniziare a parlare, però!» Minner finse dispiacere nella voce.
    «Perché di qualunque cosa si tratti, non sono interessato».
    Carl Minner inarcò le sopracciglia mostrandosi fintamente sorpreso e deluso. «Mi dispiace allora di averla disturbata, signor Presti o forse dovrei chiamarla...» Non terminò la frase, ma sorrise, come se aver taciuto fosse stato un atto di cortesia che meritava una seconda possibilità. Di sicuro era consapevole che talvolta le parole omesse erano più efficaci di quelle dette.
    Marco lo fissò serio, avvertendo dentro il petto un focolare di rabbia e preoccupazione. Pensò che, se fosse riuscito a chiudere la conversazione in questo momento avrebbe cambiato aria e identità. Sarebbe fuggito in un luogo dove non c’era posto per Laura. Ormai era abituato ad abbandonare le persone che amava.
    Vedendo che non rispondeva, Carl Minner annuì. «La saluto, allora. Spero che la famiglia Juong non scopra mai dove si è nascosto. Sa, non immagina con quanta intensità gli Joung la stiano cercando! Ha fatto proprio bene a cambiare nome, a troncare ogni legame col passato. La saluto, allora, Marco Presti».
    E Marco comprese di non avere altra scelta: il messaggio era esplicito e chiaro: “ascolta quanto ho da dire o avviso gli Juong. Dirò loro dove ti trovi e per te sarà la fine”.
    «Si sieda, Minner, la ascolto» si costrinse a dire a denti stretti.
    «Oh, bene, ha valutato in fretta i pro e i contro, vedo. Mi fa piacere».
    Marco odiò quell’uomo. «Veniamo al dunque» tagliò corto.
    «Benissimo. Iniziamo a darci del tu, se per te va bene».
    «Va bene, muoviti!» sibilò a denti stretti. Lanciò un fugace sguardo a Laura, sperando che non si fosse accorta di nulla. L’ultima cosa che voleva era che tornasse da lui e attaccasse bottone con Minner. Lei doveva stare quanto più lontana possibile da quell’uomo così pericoloso e trattenne un urlo di dolore al solo pensiero che seguì: deve stare lontana anche da me.
    «Perfetto. Noi abbiamo bisogno del tuo aiuto» disse Minner.
    Marco lo fissò, senza preoccuparsi di nascondere nulla. Era ovvio che Minner sapeva molto sul suo conto. «Che cosa vuoi che faccia?»
    Minner prese dalla tasca posteriore dei pantaloni una foto e la mise sul tavolo vicino a lui.
    Marco la strinse tra le dita e la guardò, sicuro che di qualunque cosa si trattasse non avrebbe accettato. Non era più in vendita, le sue capacità non erano più al servizio di nessuno. Quando la osservò, comprese che le possibilità di un rifiuto erano drasticamente diminuite.
    «Che cosa significa?» domandò incredulo nel vedere l’oggetto fotografato.
    «Esattamente quello che vedi».
    Marco ripassò la foto con la Sacra Sindone a Minner. «Allora è in vostro possesso». La sua non era una domanda, ma un’affermazione per prendere tempo e per riflettere. Se Minner si prende la libertà di parlare con me di questo in un bar, allora significa che il luogo è stato schermato ed è sicuro. In realtà non avevano detto nulla di compromettente, ma si guardò rapidamente attorno. Una signora seduta qualche tavolo più in là stava tentando inutilmente di fare una chiamata col cellulare. Il televisore che fino a poco prima trasmetteva dei video musicali era disturbato e Laura stava cercando di sintonizzarlo.
    «Sì, e vorremmo che la studiassi per noi».
    «Cosa potrei trovare io dopo che illustri scienziati prima di me non hanno trovato nulla?»
    «Gli illustri scienziati non possiedono le tue inestimabili doti».
    Il gioco era iniziato, inutile cercare di sottrarsi. Non poteva negare che una sua parte si sentiva elettrizzata a questa prospettiva.
    «Ha a che fare con i disegni?»
    «Sì, i nostri studiosi ritengono che i disegni portino proprio a quest’oggetto».
    «Cosa state cercando esattamente?»
    Minner parve rilassarsi: aveva vinto, lo aveva capito. «Siamo giunti alla scoperta che al suo interno sia nascosto un segreto, una rivelazione che cambierà per sempre il volto alla storia e avrà ripercussioni in tutto il mondo».
    «Tutto qui?» scherzò Marco, ma la realtà era che non vedeva l’ora di posare gli occhi sulla Sindone.
    «Per adesso sì. Ogni speranza di riuscire a svelare questo segreto è nelle tue mani, o meglio, nei tuoi occhi».
    «Capisco, e io cosa ci guadagno?» Gli affari erano pur sempre degli affari. Inoltre il fatto di averlo disturbato, smascherando la nuova identità, sarebbe costato a loro molto. Anzi, costringerlo a doversi allontanare da Laura per sempre sarebbe costato un patrimonio.
    «Prima di parlare di soldi gradirei avere una dimostrazione delle tue capacità, sai com’è: vedere per credere! E in passato non abbiamo mai avuto il piacere di collaborare a un progetto, quindi se non ti dispiace...»
    «Mi sembra giusto. Cosa vuoi che faccia?»
    Minner sorrise, si voltò e chiamò Laura con un gesto della mano. Lei uscì da dietro il bancone e s’incamminò verso loro.
    Merda, pensò Marco. Perché coinvolgere Laura? Forse era solo quello che sembrava: un test. Forse Minner non era a conoscenza del legame che li univa.
    «Voglio che osservi la barista con attenzione e mi dici di quale colore sono gli slip».
    Marco inarcò le sopracciglia, poi si rabbuiò contrariato. La cosa non gli piaceva affatto.
    Laura arrivò da loro. «Quel dannato televisore non va più!» si lamentò, poi guardò Minner che salutò con il suo splendido sorriso. «Salve!»
    «Salve, potrei avere un succo alla pera?»
    «Glielo porto subito!» rispose lei e prima di allontanarsi fece l’occhiolino a Marco.
    Lui sorrise e, quando lei si voltò, concentrò la vista sul fondoschiena. Agì rapidamente, guardò attraverso il tessuto dei jeans isolandolo e vide quel che c’era sotto, provando un improvviso e incontrollabile piacere. Si fermò al cotone degli slip, non avrebbe mai oltrepassato quel limite. E se Minner non glielo avesse chiesto, lui non lo avrebbe mai fatto. Tuttavia se avesse rifiutato la prova, avrebbe potuto insospettire Minner sul rapporto con Laura, mettendola in pericolo.
    «Allora?» gli domandò Minner.
    «Indossa una culotte a vita bassa nera col bordo bianco».
    Minner sorrise compiaciuto. «Eccellente, davvero eccellente».
    Quando Laura tornò con il succo alla pera, Minner le domandò sfacciatamente: «Mi scusi, io e il mio amico abbiamo fatto un test, un po’ stupido a dire il vero... abbiamo scommesso sul colore dei suoi slip: sarebbe così gentile da dircelo?»
    Laura guardò Marco corrugando la fronte ma sempre sorridendo, forse trovava la cosa divertente. E poteva essere così, conoscendola.
    Poi lei si voltò verso Minner. «Dirvelo?» domandò e senza attendere risposta si portò le mani al bottone dei jeans e lo slacciò, abbassando un po’ la zip. Scostò i lembi del pantalone mostrando un intimo a vita bassa di colore nero, bordato di bianco. Sorrise.
    «Allora chi ha vinto?»
    «Lui» disse Minner indicando Marco.
    «Non avevo dubbi! Cos’hai vinto?»
    Marco non fece in tempo a rispondere, perché Minner lo precedette. «Un’uscita con lei, se è d’accordo».
    Marco guardò stupefatto Minner che era riuscito a dire con tanta facilità un intimo desiderio.
    Laura fece l’occhiolino a Minner. «Oh, ma quella non si può vincere con una scommessa, bisogna chiederla nel modo giusto!» puntualizzò, poi se ne andò divertita. Tutto tornò maledettamente serio.
    Minner non si accontentò di questo test e gliene richiese uno più complicato sulla sua persona.
    Marco lo studiò con attenzione, superando i tessuti di cotone che indossava, trapassando lo spessore della pelle. Curiosò in giro, poi chiuse gli occhi per riportare la vista alla normalità. Era tanto che non si spingeva oltre certi limiti. Quando li riaprì, sussultò nel trovarsi davanti un teschio bianco. Capì subito di non essere tornato normale e li richiuse concentrandosi. Dopo pochi istanti la vista tornò come il solito.
    «Ti è stata asportata l’appendice, la cicatrice è vecchia; hai un calcolo al rene sinistro di circa due millimetri».
    Minner inarcò un sopracciglio. «Tutto qui?»
    «Hai un microchip impiantato dietro l’orecchio destro, il numero di serie è 27843901. E un altro impiantato sull’avambraccio, il cui numero di serie è 3456A699».
    «Notevole!» esclamò colpito Minner.
    Marco si lasciò andare a mezzo sorriso. «Hai anche fatto un trapianto di capelli per nascondere una calvizie prematura».
    «Sorprendente!» confermò Minner. «Ora veniamo ai dettagli, se per te va bene».
    Marco si disse d’accordo e incrociò lo sguardo con quello di Laura, che gli fece un gesto con la mano “a dopo”, per indicare che poi avrebbe dovuto parlarle di Federico.
    «Dunque...» iniziò Minner, «vorrai lavorare a casa tua, giusto?»
    «Ovviamente».
    «Bene, dopo un sopralluogo esterno direi che sia fattibile. Comprenderai però che la segretezza e il livello di sicurezza attorno all’abitazione dovranno essere eccezionali. Mi pare normale che saremo noi a gestire tutta la faccenda».
    «Vai avanti».
    «Prima di portare TuSaiCosa da te dovrai darci completo accesso alla casa per installare i nostri sistemi di sorveglianza. La faccenda Juong ci ha insegnato parecchio sul tuo conto e non vogliamo che te la fili con i nostri preziosi segreti».
    «Non lo farei mai!» rispose sarcastico lui.
    Minner inarcò un sopracciglio e continuò «Be’, capisci perché non ci fidiamo?»
    «Okay, avrete accesso alla casa. Che altro?»
    «Nulla, solo questo. Ora veniamo ai soldi».
    Marco aveva già fatto i suoi conti: se questa gente era riuscita a rubare la Sindone dai musei Vaticani e lo avevano scovato, significava che possedevano risorse illimitate.
    «Direi che cinquanta sia una cifra ragionevole» buttò lì con indifferenza.
    «Cinquanta...?» chiese Minner.
    «Milioni di euro, naturalmente» replicò tranquillo.
    Minner non si scompose, sfilò dalla tasca il suo telefonino e fece una chiamata. «Ciao, tesoro. Ti darò delle coordinate bancarie. Voglio che tu versi la somma che ti dirò su questo conto, aspetta».
    Lo guardò in attesa che Marco gli dettasse le coordinate del conto, mentre lui le comunicava all’invisibile partner telefonica.
    «Versa cento milioni. Okay, grazie». Aggancio. «L’operazione è stata eseguita» gli confermò.
    Questa volta fu Marco a non scomporsi. Chiese il cellulare di Minner per chiamare la banca svizzera. Ottenne il saldo del conto, che attestava l’avvenuta transazione: cento milioni di euro erano appena stati depositati.
    «Direi che ora siamo in affari, non ti pare?» domandò sorridente Minner.
    «Direi solo che abbiamo un interesse comune».
    «Ovviamente prenditi tutto il tempo che vuoi, non ti faremo pressioni».
    «Era scontato».
    «Però voglio che tu sappia che in segno di fiducia sistemeremo il disguido con la famiglia Juong per te».
    Marco sollevò un sopracciglio, stupito. «E come pensi di risolverlo?»
    Minner si strinse nelle spalle. «Conosciamo la famiglia Juong da molto tempo, hanno più volte chiesto di entrare a far parte del nostro gruppo e adesso che mi viene in mente abbiamo proprio bisogno di incrementare i contatti nella capitale. Sono certo che Jim Juong sarà felice di smettere di darti la caccia, otterrà molto in cambio e questo lo ripagherà di tutto quello che gli avete fatto passare».
    Avete? Perché aveva parlato al plurale? Quanto ne sapeva davvero sul suo conto?
    Si guardarono a lungo, studiandosi a vicenda, poi Minner proseguì. «Voglio mostrarti una cosa, e se lo faccio, è solo per assicurarmi che tu comprenda appieno il fatto che non puoi in alcun modo tradirci: noi non siamo la famiglia Juong». Detto ciò, sfilò di tasca una seconda foto e gliela porse.
    Marco guardò la persona raffigurata e capì che lo tenevano in pugno.